Lo smart working dopo il Coronavirus
Paola Morigi
Sul n. 3/2020 di questa rivista si è dato ampio spazio ad un tema di grande attualità, che nel periodo caratterizzato dalla pandemia generata da Covid-19 ha trovato diffusione, sia negli uffici privati che in quelli pubblici. Ci riferiamo al “lavoro agile” o smart working, ripreso dalla “legislazione d’emergenza” e da circolari e direttive – alcune di queste emanate dal Ministro della Funzione pubblica ̶ uscite da febbraio del corrente anno con l’obiettivo chiaro di utilizzare questo strumento lavorativo per contrastare il Coronavirus ed assicurare la continuità di una serie di attività e di servizi.
Nell’editoriale del prof. Ruffini che apriva il n. 3 di maggio-giugno e che introduceva l’argomento venivano ripresi tre termini con i quali, parlando di smart working, ci si deve necessariamente confrontare: inclusione, copresenza, vitalità. Si può dimostrare che:
̶ l’applicazione di questa modalità lavorativa richiede un fattivo coinvolgimento di tutti i collaboratori;
̶ è necessario impiegare formule che consentano di superare i tradizionali modelli gerarchici;
̶ è sempre indispensabile trovare adeguata energia, fisica e psicologica, per consentire le soluzioni ai problemi di volta in volta più opportune.
Nelle pagine che seguono richiameremo brevemente la normativa che disciplina la materia, ma ci soffermeremo principalmente su quanto sta emergendo attraverso le esperienze degli enti che lo hanno sperimentato, anche per trarre utili indicazioni e suggerimenti in ordine a ciò che potrebbe succedere quando sarà superata in via definitiva la pandemia o la si sarà posta sotto controllo. Non si dovrà infatti ritornare semplicemente al passato ma fare tesoro di ciò che si è appreso per migliorare l’organizzazione dei nostri uffici e dei nostri enti e riuscire così a fornire servizi pubblici adeguati con modalità innovative.
Il “lavoro agile” dal punto di vista legislativo
Disciplinato da una normativa contenuta nell’art. 18 della l. n. 81/2017, il “lavoro agile” – che non deve essere confuso con il telelavoro ̶ viene definito come una modalità di esecuzione del rapporto subordinato, presuppone una maggiore autonomia da parte del lavoratore, ma lo responsabilizza in ordine all’ottenimento di una serie di risultati. La sua applicazione comporta, oltre ad un accordo scritto fra datore di lavoro e dipendente, una revisione della cultura organizzativa tradizionale, una più ampia flessibilità in ordine agli spazi ed ai tempi di lavoro, ma anche un minimo di dotazioni strumentali che dovrebbero essere assicurate al lavoratore e di garanzie affinché non vengano ad essere ridimensionati i suoi diritti.
Prima del Coronavirus in Italia lo smart working aveva trovato applicazione principalmente in grandi aziende, ma non erano mancate esperienze interessanti anche nel settore pubblico. Ricordiamo, senza pretesa di esaustività, quelle delle Regioni Emilia-Romagna, Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Lazio, della Città di Torino, della Provincia autonoma di Trento, del Comune e della Città metropolitana di Bologna, della Camera di commercio di Milano Monza Brianza e Lodi solo per citarne alcune. Non vi erano però solamente enti di grande dimensione che lo avevano sperimentato: in provincia di Ravenna era stato applicato già da alcuni anni nella Camera di commercio e più recentemente anche nel Comune di Cervia. Vi era anche l’Unione delle Valli e delle Dolomiti friulane che si era attivata per utilizzare questa formula.
L’emergenza sanitaria connessa con il diffondersi di Covid-19 ha riportato in auge lo strumento. Il Governo ha messo in campo una serie di decreti, tesi principalmente a tutelare la salute, ma che poi trattano anche le problematiche economiche legate alla diffusione della pandemia e alla situazione di crisi.
Attualmente il riferimento normativo contenuto nella “legislazione d’emergenza” è l’art. 90 del d.l. 19.5.2020, n. 34, convertito nella l. 17.7.20220, n. 77. Negli scorsi mesi si sono ipotizzate anche misure incentivanti, che non corrispondono necessariamente a contributi ma piuttosto a suggerimenti operativi e a possibili cambiamenti al modo consueto di lavorare: si va dall’idea di superare progressivamente il telelavoro, all’utilizzo di soluzioni cloud per facilitare condivisioni e lavoro di squadra, alla partecipazione a riunioni attraverso videoconferenze, al possibile utilizzo di propri dispositivi da parte dei dipendenti che intendano ricorrere al “lavoro agile” e così via. Un attento monitoraggio delle iniziative intraprese verrà condotto dal Dipartimento della Funzione pubblica ma anche, in sede locale, dai Comitati unici di garanzia e dagli Organismi indipendenti di valutazione, per i riflessi che le misure adottate potranno avere sulla performance aziendale.
Il d.P.C.M. del 23.2.2020 all’art. 3 ha precisato che lo smart working o “lavoro agile” lo si può applicare “in via automatica ad ogni rapporto di lavoro subordinato nell’ambito di aree considerate a rischio nelle situazioni di emergenza nazionale o locale nel rispetto dei principi dettati dalle menzionate disposizioni e anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti.”
Tale articolo però due giorni dopo è stato soppresso e sostituito da uno nuovo, con una portata più ampia, che ha precisa la sua applicabilità fino al 15 marzo 2020 “per i datori di lavoro aventi sede legale o operativa nelle Regioni Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte, Veneto e Liguria, e per i lavoratori ivi residenti o domiciliati che svolgano attività lavorativa fuori da tali territori, a ogni rapporto di lavoro subordinato, nel rispetto die principi dettati dalle menzionate disposizioni, anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti.” Si precisa poi che gli obblighi di informativa vengono assolti per via telematica.
Successivamente l’art. 4 del d.P.C.M. 1.3.2020 ha esteso la possibilità di utilizzare il lavoro agile a tutto il territorio nazionale e non solamente alle zone più colpite dall’emergenza epidemiologica da “COVID-19”.
È poi stato pubblicato il d.l. 2.3.2020, n. 9 contenente una serie di misure a sostegno di famiglie, lavoratori e imprese colpiti dall’emergenza del Coronavirus, che all’art. 18 conteneva ancora una volta riferimenti allo smart working, prevedendo un innalzamento nei livelli dei quantitativi di personal computer portatili e tablet che potevano essere acquistati attraverso le convenzioni con Consip, al fine di favorire la diffusione del lavoro da remoto.
Né come si diceva sono mancate direttive e circolari della Funzione pubblica in cui si sottolinea la necessità di individuare nuovi modelli organizzativi che possano facilitare l’adozione del “lavoro agile”.