AGGRESSIVITÀ E VIOLENZA NEI SERVIZI ALLA PERSONA
Georges Tabacchi
IL PROCESSO DI SPERSONALIZZAZIONE COME DETONATORE
L’aggressività nei servizi esiste, a volte è conclamata, a volte è sotto traccia, quasi impercettibile. Non sempre chi lavora in ambito sociale ne è consapevole. Talvolta, ancora, vi sono situazioni in cui sono presenti elementi di aggressività e di violenza, ma sono stati in qualche modo metabolizzati dalle consuetudini dell’équipe, così che comportamenti o anche solo modi di concepire il proprio lavoro e le relazioni con le persone assistite e che contengono in sé germi di violenza sono percepiti come normali e fisiologici. Magari gli stessi operatori, se sentissero raccontate da altri le situazioni che li vedono protagonisti, le riterrebbero intollerabili; ma entro il gruppo vi sono consuetudini e vissuti condivisi che tendono ad affievolire il senso d’indignazione anche a fronte di situazioni che pure sarebbero, laddove viste con la debita distanza, considerate ingiuste dalle stesse persone che le agiscono. E così, quando incontro un gruppo di lavoro mi chiedo: che consapevolezza ha questo gruppo dell’aggressività, effettiva o potenziale, prodotta nel servizio in cui lavora? Quanto sa leggere segnali e dinamiche potenzialmente violente? Provo ad esplorare questo tema a partire dalle domande e dalle attenzioni che uso quando incontro una équipe di lavoro.
PARTIAMO DALLE ORGANIZZAZIONI E DAL MERCATO DEL LAVORO
Si tratta per come si è trattati. I danni prodotti da un mercato del sociale guidato da logiche imprenditoriali al ribasso, da una concorrenza che si gioca sul contenimento dei costi sono abbastanza intuitivi. Ma ciò non accade solo perché il ribasso comporta maggiore stress, maggiori tensioni, minori figure di sostegno e supporto, ecc.
Un contesto di questo genere incide anche su elementi più profondi, che riguardano il modo con cui l’operatore considera la propria identità professionale. Timori e incertezze sulla continuità del posto di lavoro che diminuiscono tra l’altro sulla possibilità di identificarsi sia in quello che si fa sia nell’organizzazione in cui si lavora, generando così un vissuto di “occasionalità” e di estraneità quello che si fa come operatori sociali rispetto alla propria identità. Insomma, quello che lavora qui «non sono io», quello che si comporta così con l’anziano, con il disabile «non sono io»: l’operatore non si sente parte di un’organizzazione o di una comunità professionale …