Autorizzati a pensare
Renato Ruffini
“Ragionevole è il nome di colui che sottomette la propria ragione all’esperienza”
Jean Guitton
“La vera sovranità nazionale consiste nel maturare l’opinione pubblica, prima di costringerla a dichiararsi”
Sismondo De Sismondi
Il discorso alla città fatto dall’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, intitolato: Autorizzati a pensare, in occasione dell’ultima festa di Sant’Ambrogio il 6 dicembre 2018, di fronte a sindaci e autorità varie, offre a studiosi e operatori della pubblica amministrazione utili spunti sia per leggere con maggiore lucidità la realtà odierna sia per riflettere sul nostro “ufficio” (per dirla con Sant’Ambrogio) e le modalità di esercitarlo di ognuno di noi.
L’intervento si apre con la lettera di Giacomo (3,13 -4,8) che interpreta le dinamiche conflittuali dentro le comunità come l’emergere di passioni che rendono stolti, mentre la possibilità di pace è data da un’intelligenza benevola, da un pensiero, «da una sapienza che viene dall’alto che è pura, pacifica, mite, arrendevole piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera». Questa sapienza implica un pensiero, siamo quindi autorizzati a pensare, anzi obbligati a farlo per non cadere in una cieca emotività, e questi pensieri devono essere pieni di ragionevolezza. Diceva Jean Guitton che «ragionevole è il nome di colui che sottomette la propria ragione all’esperienza». Il pensiero, in altri termini, deve fare i conti con la realtà, cosa che non fa chi segue le proprie ragioni senza pensare. Se non con l’emotività, confondendo la realtà con i propri sentimenti e i propri demoni.
Partendo da questo incipit la riflessione dell’Arcivescovo parte dall’analisi di tre aspetti: le pretese indiscutibili, il consenso emotivo, le procedure esasperanti. Aspetti che tutti coloro che operano nei servizi pubblici hanno ben presenti poiché rappresentano aspetti che influenzano fortemente la loro quotidianità.
Dall’emotività e suscettibilità all’essere persone ragionevoli
La nostra epoca appare sempre più caratterizzata da una forte emotività che porta ad una richiesta di riconoscimento delle istanze singole e di gruppo che appaiono non sempre come riconoscimento dei diritti, ma spesso una mera pretesa indiscutibile. «L’emozione non è un male, ma non è una ragione – dice l’arcivescovo. – Forse in questo momento l’intensità delle emozioni è particolarmente determinante nei comportamenti. Ciascuno si ritiene criterio del bene e del male, del diritto e del torto: quello che io sento è indiscutibile, quello che io voglio è insindacabile». Oggi viviamo in un’epoca nella quale, grazie all’aumento delle potenzialità individuali e di accesso alle informazioni (vere o fake) ogni individuo (singolarmente o in gruppi) difende i suoi diritti. Ciò, per molti aspetti è sicuramente positivo. Mai come oggi ci sono movimenti di tutela dei diritti. Tuttavia, spesso, si difendono cose sulle quali sarebbe meglio discutere se siano o meno diritti (per esempio i no vax) e a livello individuale ogni interesse personale diventa un diritto preteso, poiché spesso si dimentica il dovere che lo accompagna e le regole che lo governano.
Tutto ciò ha varie e complesse conseguenze.
In primo luogo la difficoltà del rapporto tra cittadini e istituzioni pubbliche. L’arcivescovo sottolinea come tutto ciò si riversa anche nel rapporto con chi «presta un servizio pubblico alla comunità: (…) Ci vogliono molta pazienza, capacità di relazione, predisposizione all’empatia e alla comprensione, autocontrollo nelle reazioni, per portare alcune richieste a buon fine, mentre alle spalle premono impazienti molti altri che pure hanno diritto a essere serviti». Infatti ogni giorno chi presta un pubblico servizio si trova a rapportarsi con molte persone «che vivono le loro legittime aspettative con atteggiamenti di pretesa arrogante. La pretesa non è il far valere i propri diritti, ma è mancare di comprensione nei confronti degli operatori e delle regole che essi devono rispettare».
In secondo luogo la difficoltà di dialogo e la scarsa comprensione delle ragioni delle istituzioni creano una significativa delegittimazione fino ad avere veri e propri “pregiudizi” nei confronti delle stesse. In proposito l’arcivescovo sottolinea come la mentalità attuale «esalta l’emozione, lo slogan gridato, stuzzica la suscettibilità e deprime il pensiero riflessivo». Si è diffusa in questo periodo «una sensibilità che si è ammalata di suscettibilità, di un pregiudiziale atteggiamento di discredito verso le istituzioni e in particolare verso i servizi pubblici più vicini ai cittadini». Ovviamente l’arcivescovo precisa: «La mia intenzione non è di avallare le inadempienze o di giustificare i disservizi. Piuttosto credo che la convivenza in città sarebbe più serena e la presenza di tutti più costruttiva se, dominando l’impazienza e le pretese, potessimo essere tutti più ragionevoli, comprensivi, realisti nel considerare quello che si fa, quello che si può fare per migliorare e anche quello che non si può fare. Ecco: siamo autorizzati a pensare, a essere persone ragionevoli».
Condizionati da slogan e costruzione del consenso, puntare invece alla ragionevolezza
In proposito, l’arcivescovo stigmatizza la diffusione di una modalità di comunicazione pubblica deformata e deformante la realtà. «Nel dibattito pubblico, nel confronto tra le parti, nella campagna elettorale, il linguaggio tende a degenerare in espressioni aggressive, l’argomentazione si riduce a espressioni a effetto, le proposte si esprimono con slogan riduttivi piuttosto che con elaborazioni persuasive». Perciò «credo che il consenso costruito con un’eccessiva stimolazione dell’emotività dove si ingigantiscano paure, pregiudizi, ingenuità, reazioni passionali, non giovi al bene dei cittadini e non favorisca la partecipazione democratica».
Nelle amministrazioni pubbliche questo fenomeno ha conseguenze profonde e pericolose. Esso infatti riguarda le modalità di costruzione del consenso da parte della politica che, è bene ricordare, quando dirige le istituzioni è prima di tutto “amministrazione”. Oggi la costruzione del consenso da parte della politica avviene in un modo diverso dal passato e molto simile a quello delle imprese. In primo luogo la politica oggi non ha più “politiche” (se non come meri simulacri e bandiere) ma offre agli “elettori-consumatori” ciò che preferiscono, così come fanno le imprese con i propri prodotti sul mercato. Allo stesso modo in molti casi i prodotti delle imprese sono prodotti praticamente “inventati” e spesso inutili (come certi cibi spazzatura) ma che vendono perché spinti con campagne pubblicitarie aggressive e milionarie. Questo consenso creato dando ai cittadini ciò che chiedono indipendentemente da ciò di cui hanno bisogno come singoli e come nazione ha ovviamente ricadute devastanti nelle amministrazioni, le quali si trovano a dovere operare come banderuole (in una innaturale flessibilità), seguendo i tempi della cronaca, indipendentemente dalle proprie competenze (generando forti tensioni interne). Il politico (ovviamente certi politici non tutti) in questo modo tende a credere che le amministrazioni possono fare tutto immediatamente, un po’ come i bambini che ritengono i genitori capaci di esaudire tutti i propri desideri e rimangono frustrati se si sentono dire dei no.
Una seconda conseguenza di questo processo di gestione del consenso è quello di impedire forme di partecipazioni reali da parte dei cittadini e quindi si corre il rischio di impoverire la qualità del tessuto democratico. In proposito dice l’arcivescovo: «La partecipazione democratica e la corresponsabilità per il bene comune crescono, a me sembra, se si condividono pensieri e non solo emozioni, informazioni obiettive e non solo titoli a effetto, confronti su dati e programmi e non solo insulti e insinuazioni, desideri e non solo ricerca compulsiva di risposta ai bisogni».
Insofferenti alle procedure, necessario avviare semplificazioni
Il quadro relazionale problematico fino ad ora analizzato ha pensanti conseguenze anche in relazione ad un problema tipico dell’amministrazione italiana: l’esigenza di semplificare le regole e le pratiche operative della burocrazia sia delle amministrazioni pubbliche, sia delle imposizioni ai soggetti privati.
In proposito, l’arcivescovo sviluppa una lucida analisi: «La normativa che impone adempimenti complessi offre appigli per quella litigiosità aggressiva e irrazionale che può esporre i responsabili a beghe interminabili. Pertanto diventa comprensibile la tendenza a evitare di prendersi responsabilità, da parte dei singoli operatori», aggiungendo «Forse che “la patria del diritto”, come si può definire l’Italia, sia diventata un condominio di azzeccagarbugli litigiosi?».
Perché accade tutto ciò? Perché tante regole e perché tanta difficoltà a semplificarle? La risposta è tutto sommato semplice dal punto di vista logico, ma assai complessa dal punto di vista pratico: tutto ciò accade perché non c’è fiducia reciproca ed una chiara consapevolezza del bene comune. Forse non è un caso che gli Stati meglio posizionati nelle classifiche internazionali sul tema corruzione sono quelli che non hanno nessuna norma in proposito (come per esempio la Danimarca). Tempo fa un collega chiese ad un capo del personale di un comune svedese come facessero le assunzioni. La risposta fu che non avevano «concorsi pubblici» come noi li intendiamo, che potevano fare liberamente chiamate dirette, tuttavia normalmente facevano selezioni molto rigorose perché «non vogliamo che si pensi male di noi». La reputazione e la fiducia dei propri interlocutori è la vera ricchezza delle istituzioni e la prima condizione per un loro funzionamento equo ed efficace.
Come afferma l’arcivescovo nel suo discorso la semplificazione sarà possibile solo se si avrà fiducia reciproca e una chiara idea di bene comune: «Mi sembra che si debba insistere in quei percorsi di semplificazione che sono spesso enunciati e promessi per rendere più facile essere buoni cittadini, onesti e in regola con la pubblica amministrazione, per favorire l’intraprendenza di imprenditori e di operatori negli ambiti del servizio ai cittadini e della solidarietà. È però evidente che i percorsi promessi e avviati presuppongono il recupero di una fiducia tra i cittadini, e tra cittadini e pubblica amministrazione. Non servirà semplificare le procedure se perdura il sospetto sul cittadino come incline a delinquere e se rimane radicata nel cittadino l’inclinazione alla litigiosità e alla suscettibilità che è insofferente delle regole del vivere insieme e del rispetto reciproco».
Autorizzati a pensare
Per riuscire a superare il conflitto generato da una emotività ottusa le istituzioni pubbliche non possono essere lasciate da sole, ma occorre trovare alleanze e sistemi per educarci tutti alla ragionevolezza e allo sviluppo di relazioni interpersonali corrette, utili e sapienti.
«Essere persone ragionevoli è un contributo indispensabile per il bene comune. Questo evoca la solidarietà/fraternità della condivisione relazionale», sottolinea l’arcivescovo. E lancia un appello a tutte le realtà che pensano e aiutano a pensare. «Ritengo che sia responsabilità degli intellettuali e degli studiosi di scienze umane e sociali approfondire la questione e comunicarne i risultati».
Le università e le istituzioni culturali in particolare dovrebbero essere luoghi di elaborazione e proposta di «un pensiero politico, sociale, economico, culturale che superando gli ambiti troppo isolati delle singole discipline possa aiutare a leggere il presente e a immaginare il futuro». L’arcivescovo ovviamente in proposito fa riferimento all’ambiente milanese e alle sue numerose ed importanti università. Tuttavia l’alleanza per un pensiero ragionevole vale per tutti noi italiani. Come cittadini credo che sentiamo tutti, e in particolare chi ha le responsabilità pubbliche, l’esigenza di trovare luoghi di confronto che ci consentano di superare quell’eterno presente che riempie le nostre giornate e di dare senso a ciò che si sta facendo, al di là del lavoro quotidiano, alzando la testa per vedere se c’è un orizzonte.
Tuttavia sono diffuse le tentazioni ad asservire il pensiero alle mode del momento, piuttosto che esercitare la responsabilità di un pensiero critico. Ancora troppo spesso molti ritengono che lo studio e le teorie siano cose lontane dalla vita di tutti i giorni e poco concrete, molti ancora credono che gli intellettuali siano “radical chic”, usando stereotipi stupidi. Recentemente è uscito un bellissimo libretto, una piccola distopia tragicomica intitolata Il censimento dei radical chic che ha un incipit fulminante «il primo lo ammazzarono a bastonate perché aveva citato Spinoza durante un talk show». Ma quando ci sono iniziative culturali una massa di cittadini si presenta perché tutti capiscono che per crescere occorre avere un pensiero critico valido e positivo che si costruisce solo attraverso l’impegno della lettura e del confronto. Le istituzioni locali, con le loro biblioteche e le loro iniziative restano un baluardo fondamentale contro la miseria morale e materiale.
Alla fine ciò che accade e che la politica spesso denigra i “professoroni” considerandoli inetti alla realtà, salvo poi chiamarli se hanno esigenze di giustificare scientificamente alcune scelte politiche decise a priori… anche in questo caso nel rapporto tra scienza e politica, meno emotività e più ragionevolezza sarebbe molto utile per tutti.
Ma pensare non è solo analisi e calcolo
Ma quale pensiero occorre sviluppare, quale razionalità utilizzare nelle decisioni? «Tra le tendenze che oggi minano il pensare – afferma l’arcivescovo – mi pare che sia insidioso l’utilitarismo che riduce il valore all’utile immediato e quantificabile, che si chiami profitto, consenso, indice di gradimento. Il pensiero asservito all’utilitarismo si riduce a calcolo, quindi a valutare risorse e mezzi in vista di un risultato per lo più individuale o corporativistico piuttosto che di un fine comune e condiviso. Pertanto si rinuncia alla riflessione sulle domande di senso, relegando l’argomento nell’irrazionale e nel sentimentale, escluso per principio dalla sfera pubblica e dalla possibilità di una dimensione sociale». Dunque, non un pensiero subordinato ad astratte logiche economiche e strumentale agli interessi di qualcuno, ma idee per costruire il futuro. «Vogliamo lavorare per superare il mero “pensiero calcolante” in favore di un allargamento del concetto di ragione; un pensiero realista, che abbia a cuore la ricerca continua della verità e del bene condiviso, libera da pregiudizi, aperta agli altri e alla domanda di senso».
In altri termini occorre superare il “pensiero calcolante” a favore di un “pensiero meditante” e relazionale. La prima forma di pensiero, quello calcolante, è tipico della gestione scientifica e professionale: fare luce sui fatti, analizzare, categorizzare persone e cose, prendere decisioni razionali. È una volontà che vogliamo diventi realtà e si fissi come realtà perché pensiamo che sia reale. Questa forma di pensiero, in molti casi utile, non sempre è adeguata per lo sviluppo delle istituzioni pubbliche e per il loro retto governo. Non si può fare un calcolo di opportunità per curare un bambino, per gestire il futuro dell’ambiente o dei trasporti. Il tema dei costi serve per capire se si sia efficienti nella produzione di servizi, come fare bene i servizi che si producono, non serve per confrontare benefici tra categorie umane (magari facendo paragoni tra poveri) o per porre divieti nell’erogare servizi pubblici. La visione calcolante e tecnocratica spesso non solo non è democratica ma nasconde meri interessi e logiche di potere.
Il pensiero meditante e relazionale riguarda il riflettere e l’essere aperti ai significati nascosti, a ciò che a prima vista non c’entra affatto, anziché cercare di analizzare definirei significati e arrivare a rapide soluzioni. Questo implica sentirsi a proprio agio nell’incertezza, discutere e criticare diverse interpretazioni e immaginare nuove possibilità, fare i conti con una realtà che è bella proprio perché sorprende ed è incerta. Ma per essere tranquilli nell’incertezza occorre essere sicuri e preparati (non necessariamente ricchi, se non di competenze). Chi governa un ente, sia esso politico e dirigente, non deve avere paura, non deve usare le paure, ma deve sapere interagire con l’incertezza e da essa scoprire sconfinati orizzonti di possibilità.
Pensare per dare forma a una visione di futuro: l’Europa
Per indicare il futuro, l’arcivescovo richiama tutti al grande sogno dell’Europa unita: «Credo che, quanto agli aspetti comuni di una visione di futuro, si possa convergere su quel cammino che porta a una convivenza pacifica e solidale e che intenda l’Europa come convivenza di popoli. La complessità e le problematiche che hanno segnato il concreto configurarsi dell’Unione Europea richiedono una ripresa delle intenzioni originarie: i cittadini d’Europa erano e sono persuasi che siano da preferire l’unione alla divisione, la collaborazione alla concorrenza, la pace alla guerra. Siamo impegnati e motivati per una partecipazione costruttiva alle vicende europee: vogliamo dare un volto all’Unione Europea dei popoli e dei valori, che pensi i suoi valori e le sue attese nella concretezza storica del tempo presente e di quello a venire, e che non si occupi di beghe e di interessi contrapposti».
Al centro la nostra Costituzione
«In questo contesto di un cantiere europeo al quale rimettere mano – prosegue l’arcivescovo – il nostro Paese adotta come punto di riferimento fondamentale per la convivenza dei cittadini e la visione dei rapporti internazionali la Costituzione della Repubblica italiana».
Il richiamo alla centralità della Costituzione, fatto dal Pastore di Milano, è per molti aspetti significativo, anche perché, nonostante il fatto che la Costituzione sia stata anch’essa strumento improprio di lotta politica, di fatto resta ancora in molte parti inapplicata. In particolare, l’arcivescovo cita nel suo discorso l’art. 2, relativo alla garanzia e al riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, e l’art. 3 relativo alla promozione del pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Inoltre la Costituzione, ci ricorda l’arcivescovo, è anche un metodo di lavoro: le differenze si siedono allo stesso tavolo per costruire insieme il proprio futuro. Contemperare gli interessi di tutti riconoscendo le ragioni di tutti e non semplicemente fare guerre ideologiche, tanto cruente quanto inutili.
La logica dell’ideologia senza idee, intellettualmente assai disonesta, alla fine porta semplicemente all’individuazione di capri espiatori, che fanno rivendicare un inutile passato che erode il futuro dei nostri figli. Come scrive l’arcivescovo «In una considerazione pensosa delle prospettive del nostro tempo si dovrà evitare di ridurci a cercare un capro espiatorio: talora, per esempio, il fenomeno delle migrazioni e la presenza di migranti, rifugiati, profughi invadono discorsi e fatti di cronaca, fino a dare l’impressione che siano l’unico problema urgente».
Invece, «si devono nominare tra le problematiche emergenti e inevitabili: la crisi demografica che sembra condannare la popolazione italiana a un inesorabile e insostenibile invecchiamento; la povertà di prospettive per i giovani che scoraggia progetti di futuro e induce molti a trasgressioni pericolose e a penose dipendenze; le difficoltà occupazionali nell’età adulta e nell’età giovanile e le problematiche del lavoro; la solitudine il più delle volte disabitata degli anziani. Queste problematiche sono complesse e non si può ingenuamente presumere di trovare soluzioni facili e rapide. Ma certo la complessità non può convincere a rassegnarsi alla diagnosi e all’elenco dei fattori di disagio».
Chi oggi ha responsabilità di governo della cosa pubblica, sia esso un rappresentante politico o un lavoratore pubblico di qualsiasi livello, per quanta fatica possa fare, dovrebbe riflettere sulle parole del pastore di Milano rendendosi sempre più consapevole che una pubblica amministrazione potrà funzionare bene solo all’interno di una società nazionale coesa, armonica, non conflittuale, ragionevole. Sulla costruzione di queste nuove relazioni occorre lavorare con impegno ogni giorno, ogni volta che ci si rivolge ad un utente o a un collega. È l’alleanza tra cittadini e amministrazioni pubbliche che fa grande una nazione, non la reciproca delegittimazione.
Ci associamo quindi all’invito dell’arcivescovo quando sollecita coloro che hanno responsabilità nella società civile ad affrontare con coraggio le sfide, nella persuasione che questo territorio, e a mio avviso l’intera Nazione, ha le risorse umane e materiali per vincerle. E su questa partita tutti coloro che lavorano nei servizi pubblici hanno un ruolo rilevante.