Bambini stranieri con disabilità: tripla tutela o discriminazione?
Laura Abet, Annamaria Cremona
Introduzione: bambini stranieri con disabilità
Lo scopo primo di questo articolo è quello di tracciare i contorni dei diritti dei bambini stranieri con disabilità. La legge italiana prevede infatti una forte tutela di tutti i bambini, indipendentemente dalla nazionalità od origine etnica; spesso però manca la consapevolezza non solo negli stessi interessati, ma anche nei servizi sociali incaricati della loro tutela. Ecco perché è necessario individuare le competenze dei vari istituti e gli obblighi, a fronte di tali diritti, dei diversi soggetti coinvolti. Ci si riferisce a questo proposito, non solo alle istituzioni, ma anche ai soggetti organizzati della società civile e anche a tutti noi, in quanto membri di una società che è e deve essere attiva anche in questa direzione; si intende in questo modo fornire indicazioni utili alla funzione di tutela e rappresentanza dei diritti, sanciti anche dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo.
Per poter rendere questi stessi diritti esigibili, è necessario essere consapevoli dei diritti sia delle persone straniere, sia dei bambini, sia delle persone con disabilità; paradossalmente, però, anche se la compresenza di più fattori di debolezza dovrebbe dare luogo ad una tutela rafforzata, nei fatti spesso la coesistenza del triplice status – quello di minore, di migrante e di persona con disabilità – agisce in senso opposto, determinando una discriminazione sia a livello giuridico che a livello sociale.
I migranti: dati demografici e ciclo migratorio
Secondo i dati ISTAT, gli stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2018 sono 5.144.440, rappresentando l’8,5% della popolazione residente, mentre nel gennaio 2017 ammontavano a 5.047.028. Prevale la componente femminile, che tocca i 2,6 milioni. Vi è poi una quota di stranieri non regolari tra i quali donne (in Lombardia, ad esempio, su un milione di stranieri, si stimano 42 mila donne residenti irregolari) che, pur avendone diritto, spesso non accedono ai servizi sanitari pubblici e sfuggono anche alla rilevazione precoce di malattie infettive (rosolia, toxoplasmosi), il che comporta complicanze nella gravidanza e patologie fetali e materne, con conseguente maggiore incidenza di nascite difficoltose. Il tema è quanto mai rilevante se si considera che, secondo
l’ultimo bilancio demografico nazionale redatto dall’ISTAT, risalente al 2017, il 19,4% delle nascite nel nostro Paese è stato da madre straniera.
Maternità come mezzo di inclusione sociale
Per le madri migranti, un figlio è una risorsa di integrazione, costituendo un’occasione per relazionarsi con i servizi; ma al tempo stesso questa opportunità rischia di essere mortificata per il senso di inadeguatezza di queste madri, determinato da fattori quali la non conoscenza del tessuto sociale, la mancanza di rete di relazioni (anche per l’assenza della famiglia allargata), le scarse competenze linguistiche di italiano, il non riconoscimento da parte dei servizi dei loro saperi e delle loro competenze di cura.
Nel rapporto con i figli, si crea un gap culturale tra genitori e figli che assomma le normali distanze generazionali con le difficoltà ad accompagnare la crescita in un mondo che non si capisce e del quale invece i figli sono parte.
In questo percorso spesso accidentato, la scuola primaria pubblica è opportunità di incontro tra famiglie straniere e non, dal quale possono nascere occasioni per sostenere i processi di integrazione, ad esempio con iniziative di alfabetizzazione linguistica e sociale delle madri, la conduzione di laboratori di lingua della famiglia d’origine per i bambini iscritti alla scuola primaria, ecc.