Burocrazia e lavoro
Renato Ruffini
Le pubbliche amministrazioni sono spesso considerate il regno della burocrazia ed hanno sempre avuto un rapporto di amore e odio con la burocrazia stessa. Da un lato vi è l’esigenza di avere un ordine procedurale e formale al fine di evitare abusi e ingiustizie, dall’altro quello di sviluppare processi fluidi e partecipativi sia all’interno dell’organizzazione che all’esterno con i cittadini, al fine di offrire servizi che incidano positivamente sulle loro vite. In questo contesto le vecchie visioni weberiane (e per altri versi tayloristiche) dovrebbero garantire, se adeguatamente condotte, un processo amministrativo razionale ed efficiente, dall’altro però tendono a disumanizzare il lavoro.
Il dibattito sul tema burocrazione/deburocratizzazione è molto sviluppato nell’ambito degli studi organizzativi (e.g. Byrkjeflot & du Gay, 2012; Courpasson, 2000; du Gay, 2000; Greenwood & Lawrence, 2005). Da un lato c’è chi critica il dominio della burocrazia, gerarchica e disumanizzante (cf., Adler and Willmott, 2007), ma d’altro canto c’è anche chi mette in guardia dai pericoli dei processi di de-burocratizzazione nella p.a. (Clegg, 2011; Courpasson & Clegg, 2006; Du Gay, 2000; Willmott, 2011), che oltre ad essere considerati sotto alcuni aspetti un po’ idealistici possono essere e forse sono stati in tempi passati dei cavalli di Troia per aprire a logiche di carattere neoliberale e autoritario inadeguati per la pubblica amministrazione.
Di fronte ad un dibattito anche di alto livello teorico tra gli studiosi di organizzazione di fatto ci sono pochissimi studi empirici che analizzano le dinamiche micro-organizzative utili alla deburocratizzazione così come che studino gli effetti negativi reali della burocratizzazione.
Paradossalmente il dibattito sia di tipo operativo che scientifico, è ben più sviluppato nel settore privato. Da tempo infatti, a partire dalle esperienze pratiche è fiorita una significativa letteratura manageriale che ha postulato l’esigenza di liberare il lavoro da tutte le limitazioni burocratiche.
Antesignani di questo filone furono autori come Peters con Liberation management del 1993 o prima ancora, negli anni ’70, Townsend, fino ad arrivare ad oggi con movimento delle “imprese liberate” (Carney and Getz, 2015). In sintesi la definizione di impresa liberata come una forma organizzativa è quella che permette ai lavoratori “complete freedom and responsibility to take actions that they, not their bosses, decide are best” (Getz 2009, p. 34).
I diversi autori citati e chi studia questi fenomeni, si pongono così il problema se esista o meno un modello organizzativo di impresa liberata (F-form). Isaac Getz (2009), per esempio, ritiene non ci siano modelli organizzativi ma che la definizione di impresa liberata sia basata dalle sue funzioni, dando libertà e responsabilità a chi lavora, piuttosto che ad una serie definita di caratteristiche della struttura organizzativa. Allo stesso modo, Tom Peters (1993), in Liberation management, definisce una lista di azioni che le imprese dovrebbe attuare. Frederic Laloux (2014) al contrario ritiene che i leader non dovrebbero adottare politiche “illuminate” senza che prima non abbiano adottato nuove strutture e modificato la cultura organizzativa. Robertson (2015) con il suo modello di “holacracy” definisce un preciso modello di self management, con un minimo set di pratiche operative. Le diverse opzioni operative sono riportate nella tabella 1.
Tabella 1 – Gli elementi caratterizzanti le imprese liberate secondo i principali autori (tratto con modifiche da Kerloch, 2017).
Getz and Carry Liberated company |
Peter Liberation management |
Laloux Reinventing organization |
Nessun organigramma formalizzato |
Forme intense di formazione reciproca (cross training) |
Formazione di gruppi auto-organizzati |
Nessun simbolo di potere come parcheggio riservato o luoghi riservati ai soli capi |
Autonomia di budget diffusa e possibilità autonoma di spesa |
Pratiche di coaching |
Nessun ufficio particolare per gli executives |
Ogni dipendente ha il potere di agire di propria iniziativa e coinvolgere altre funzioni senza preventive autorizzazioni |
Praticamente nessuna funzione di staff |
Assenza di ruoli dirigenziali |
Nessun preventiva definizione di compiti |
Azioni di coordinamento e meeting quando nasce l’esigenza |
Gestione del tempo libero, nessun orologio o orario di lavoro |
Pieno accesso alle informazioni aziendale |
Minimizzazione e semplificazione dei piani e dei budget e delle pratiche di project management |
Nessun utilizzo di titoli, livelli o gradi gerarchici |
Sviluppo di sistemi esperti e di pratiche di knowledge management |
Ruoli organizzativi fluidi |
Non c’è il dipartimento HR |
Decentramento decisionale |
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Non si utilizzano strutture di controllo budgettario |
Piena trasparenza e tempestività delle informazioni, incluse quelle finanziarie |
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Non si fa pianificazione strategica |
Chiunque ha poteri di spesa in tema di fornitura della consulenza |
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Gli impiegati possono scegliere liberamente il capo |
Processi di risoluzione dei conflitti formalizzati |
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Agli impiegati è consentito di scegliere liberamente il loro lavoro |
Focus sulla performance di team, valutazione individuale basata su processi basati sulla logica paritaria |
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Agli impiegati è consentito di scegliere liberamente il tempo di lavoro |
Scelta tra set di livelli salariali con calibrazione tra pari, nessun bonus, profit sharing |
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Agli impiegati è data la possibilità di scegliere la propria retribuzione (entro schemi definiti) |
A nostro avviso i processi di deburocratizzazione si sviluppano attraverso forme di “liberazione del lavoro”. In altri termini deburocratizzare significa minimizzare le regole necessarie a condurre l’azione degli individui, dare maggiore libertà a chi lavora di decidere come lavorare. In pratica le regole si minimizzano e la responsabilizzazione degli individui aumenta: questo è il postulato fondamentale.
La burocrazia nella p.a. italiana
Visto il dibattito generale è utile chiedersi quale sia lo stato dell’arte nell’ambito degli studi e delle pratiche organizzative nel settore pubblico. In generale è da decenni che ci si lamenta dell’eccessiva burocrazia e dell’esigenza di semplificare, ma questi termini dopo tanti fallimenti, sono diventate parole abbastanza vuote e mancano di analisi e teorizzazioni specifiche. In generale l’idea è ancora quell’antica di Guido Carli relativa all’esigenza di liberare da “lacci e lacciuoli” i cittadini e le imprese e quindi di semplificare la normativa, esercizio che ad oggi raramente è stato attuato. In particolare i processi di semplificazione normativa nei migliori dei casi hanno prodotto normative armonizzate e testi unici, mentre nei casi peggiori hanno complicato la normativa creando buchi o nuovi diritti precedentemente inesistenti. Ma a parte gli aspetti giuridici ad oggi nulla (o molto poco) è stato detto, scritto o sperimentato in tema di processi di de-burocratizzazione nell’organizzazione delle istituzioni pubbliche.
Ma com’è la burocrazia dal punto di vista organizzativo nelle amministrazioni pubbliche? In termini generalizzanti e provocatori (poco validi dal punto di vista scientifico ma utili alla riflessione e al dibattito) potremmo dire che la scarsa qualità della normativa a fronte dei complessi fenomeni sociali da amministrare ha creato in Italia una burocrazia disfunzionale dal punto di vista organizzativo, cioè sciatta e trasandata, che non guida l’efficienza e l’impersonalità ma piuttosto disintegra l’organizzazione all’interno di routine soggettive e crea problemi alle persone ed ai rapporti interpersonali all’interno dell’organizzazione. Per intenderci è la burocrazia del “si è sempre fatto così”, del “si fa così perché lo dice la legge” che però non si conosce e non si cita, e la burocrazia del “a qualcuno tocca, speriamo non a me”, o in casi opposti del “volontariato” per cui alla fine c’è sempre qualcuno che si fa carico di un problema, è la burocrazia che lascia dei buchi che consentono a qualcuno di fare cose geniali e utili in modo quasi clandestino, perché nessuno controlla. Insomma, una burocrazia della disorganizzazione.
Questa burocrazia ultimamente si sta strutturando, ma con molta fatica e sudore, attraverso le pratiche di controllo esterno e di autocontrollo, quali la certificazione o l’analisi dei rischi, ma ancora c’è molto lavoro da fare.
Peraltro accade anche in questo contesto il fenomeno contrario, dove cioè le norme esterne nell’illusorio tentativo di migliorare l’efficienza tendono a limitare fino a quasi annullare la libertà (cioè l’autonomia) di chi opera nelle amministrazioni costringendoli ad adottare comportamenti predefiniti: si pensi alle norme sugli appalti e sulla gestione del personale, che di fatto lasciano pochissima autonomia ai dirigenti.
È all’interno di questa situazione organizzativa caratterizzata da regole non equilibrate per cui ogni comportamento è limitato dal comportamento degli altri e da una serie di problematiche condizioni strutturali degli organici (anzianità media di servizio elevata, blocco dei mercati interni del lavoro, sistemi di incentivi irrazionale, ecc.) che si è creato un profondo malessere nelle organizzazioni pubbliche, che oggi cercano di migliorare le condizioni dei lavoratori seguendo giustamente ogni “moda”, dal benessere organizzativo allo smart working, tuttavia senza mai avere risultati validi, stante le confuse condizioni organizzative di partenza.
Eppure il settore pubblico, molto più del settore privato potrebbe essere un luogo in cui il lavoro è libero per la natura stessa dei servizi erogati, per l’assenza di meccanismi di mercato e per la loro dipendenza dalla regolazione istituzionale.
Processi di deburocratizzazione organizzativa e libertà del lavoro
Ma come si può procedere a deburocratizzare un’organizzazione senza danni e dando la maggiore libertà possibile ai lavoratori di operare in modo responsabile ed efficace?
Il tema è molto complesso, però forse può essere schematizzato pensando al concetto di libertà. In proposito è utile ricordare che ci sono due tipi di libertà: la libertà negativa e la libertà positiva (Isaia Berlin, 1983).
Con libertà negativa s’intende la libertà come la massima riduzione possibile di limiti o costrizioni posti ad un soggetto, un altro individuo, gruppo o società, alla possibilità di fare ciò che si è scelto di fare. La libertà è quindi l’area di azione che un individuo può intraprendere senza essere deliberatamente e legalmente ostacolato da altri. La visione di libertà negativa implica la ricerca della massima libertà possibile per l’individuo, stante il fatto che – in un contesto sociale – necessariamente alcuni vincoli debbano essere individuati al fine di evitare forme di conflittualità eccessiva che potrebbero distruggere il sistema organizzativo. Questo tipo di libertà si persegue minimizzando il livello di regolazione sia come numerosità di regole sia in termini di loro pervasività.
La libertà concepita in termini positivi implica la possibilità data all’individuo di essere padrone di sé stesso diventando strumento dei propri atti di volontà e non di quello di altri. È di conseguenza un tema di qualità della libertà e non di mera quantità (riduzione dei vincoli). La libertà positiva nelle organizzazioni implica la possibilità data all’individuo di crescere in termini di capabilities, sviluppando la ragione critica che gli consente di distinguere ciò che è necessario e ciò che è contingente e consentendogli di assumere la piena responsabilità delle proprie azioni. La libertà positiva consente in altri termini a chi lavora di esprimere sé stesso e di crescere come persona nel mondo.
Le due tipologie di libertà siano tra loro legate, nel senso che si supportano a vicenda. La riduzione dei vincoli esterni (libertà negativa) è la base per l’affermazione individuale (libertà positiva), e la libertà positiva serve per assicurarsi corretti equilibri organizzativi e responsabilizzazione che consentono la minimizzazione delle regole.
Possiamo quindi ritenere che la libertà negativa in un’organizzazione sia ottenibile attraverso la massima riduzione possibile delle norme e dei relativi controlli di loro attuazione, dato il contesto. Mentre la libertà positiva si ottiene se gli sforzi del lavoro sono orientati allo sviluppo delle persone in termini di competenze e funzionalità, piuttosto che allo sviluppo dell’organizzazione (qualsiasi siano le dimensioni di sua misurazione). All’interno di queste due dimensioni dovrebbero essere contenute tutte le diverse pratiche con cui operativamente una determinata organizzazione persegue la libertà delle persone che in essa operano, dando ad essere un loro preciso animus che qualifica l’atto di liberazione.
Incrociando le due dimensioni individuate possiamo identificare quattro gradi di sviluppo della di libertà (Figura 1), la cui intensità di libertà degli individui (ovvero l’effettiva libertà degli stessi) dipende comunque in ultima analisi dall’effettivo orientamento alle persone, posto che la piena condizione di libertà sarebbe data dalla piena indipendenza delle persone stesse
Figura 1 – La libertà qualitativa e quantitativa delle organizzazioni aziendali
Come si evince dalla figura 1 i percorsi di de-burocratizzazione possono svilupparsi secondo vari gradi a partire da un livello “zero” caratterizzato dal fatto che le persone sono totalmente subordinate all’organizzazione (il modello per intenderci dell’operaio alla catena di montaggio rappresentato da Charlie Chaplin in tempi moderni).
Un primo livello è quello manipolativo e paternalistico dove l’organizzazione per tramite dei loro capi, al fine di perseguire gli obiettivi organizzativi in un contesto mal regolato cerca di piegare gli individui alle esigenze organizzative coinvolgerli con pratiche manipolative basate sulle relazioni interpersonali. È questo il modello tipico delle amministrazioni pubbliche, e non solo, che avviene a causa di regole e forme del controllo che sono restrittive e spesso irrazionali rispetto ai servizi da produrre.
Il secondo livello è quello delle organizzazioni partecipative, che si attua creando modalità di collaborazione e confronto costante nella produzione dei servizi.
Il terzo livello è quello dell’organizzazione emancipatrice, dove in sostanza l’organizzazione consente ai lavoratori attraverso i processi di lavoro e di relazione interni, di crescere come persone, sviluppando competenze e capacità critiche che gli consentono di procedere in piena autonomia, responsabilizzandosi a pieno e con consapevolezza sui servizi che erogano e collaborando in modo attivo con gli altri.
Il quarto livello è quello dell’organizzazione liberata, dove la capacità degli individui di operare con piena responsabilità e collaborazione è tale da consentire un forte abbattimento sia degli assetti organizzativi sia delle altre pratiche di controllo.
Molte amministrazioni soprattutto locali stanno tentando di sviluppare forme di maggiore “libertà” del lavoro e de-burocratizzazione, sentono infatti il problema all’interno delle loro organizzazioni, attraverso il malessere dei lavoratori e le difficoltà di dare servizi rapidi ed efficienti ai cittadini, e quindi cercano in modo pragmatico risposte idonee al problema.
Se osserviamo con un po’ di attenzione vediamo che queste pratiche hanno elementi comuni, per esempio forme di leadership docile e condivisa, forme di creazione di momenti relazionali al di fuori dei normali processi lavorativi, attenzione ai tempi di vita rispetto a quelli di lavoro, pratiche di smart working, forme di co-produzione delle attività con gli stakeholder e forme di animazione e sviluppo della partecipazione attiva dei cittadini e molto altro ancora.
È bene che chi opera nelle pubbliche amministrazioni e chi le studia cominci ad analizzare in modo scientifico questi fenomeni e si interroghi su come deburocratizzare la pubblica amministrazione e liberare il lavoro pubblico da routine assurde e ambiguità dei ruoli che hanno creato non pochi problemi a gran parte dei lavoratori attuali.
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