Edilizia di culto e potestà legislativa regionale
Andrea Ambrosi
L’articolo analizza le implicazioni che la libertà religiosa di cui all’art. 19 Cost. comporta in relazione alle attribuzioni regionali in materia di governo del territorio e alle materie di esclusiva competenza dello Stato, con particolare riguardo al ‘diritto ad un luogo di culto’ e in riferimento al rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. Il saggio individua nella necessaria previsione dei luoghi di culto da parte della legge regionale uno dei “principi fondamentali” della materia concorrente, che comporta quindi l’esigenza di un contemperamento tra ‘diritto al luogo di culto’ e altri interessi nella legislazione regionale in materia di “governo del territorio”. L’Autore esamina infine la disciplina urbanistica regionale della apertura di luoghi di culto e del ‘mutamento di destinazione d’uso’ alla luce del principio di eguaglianza.
1. – Il rapporto tra attribuzioni delle Regioni in materia urbanistico- edilizia ed effettività del diritto di esercitare in privato e in pubblico il culto religioso è da lungo tempo oggetto di indagine, e numerosi sono i contributi di rilievo pubblicati sul tema. Recenti interventi legislativi di alcune Regioni, i quali sono apparsi subito come provvedimenti intenzionalmente discriminatori nei confronti di (appartenenti a) minoranze religiose, e due conseguenti decisioni della Corte costituzionale (la sentenza n. 63 del 2016, su disposizioni della l. reg. Lombardia 3 febbraio 2015, n. 2, e la sentenza n. 67 del 2017, su parte della l. reg. Veneto 12 aprile 2016, n. 12) concorrono peraltro a riportare di attualità il tema, offrendo al dibattito nuovi elementi per la riflessione.
2. – Come ineludibile punto di partenza, occorre domandarsi quale sia il contenuto dell’art. 19 Cost.: più precisamente, se esso garantisca – accanto a libertà che potremmo chiamare ‘sostanziali’ (di “professare liberamente la propria fede religiosa”, “di farne propaganda”, “di esercitarne […] il culto”), anche posizioni ‘strumentali’ rispetto alle prime, ovvero ‘diritti’ ad usare in un certo modo determinati ‘mezzi’, e – prima ancora – ‘diritti’ di accesso a determinati mezzi. La risposta nel secondo senso è l’unica coerente con il sistema costituzionale interno, e con i vincoli sovranazionali ai quali l’Italia si è obbligata.
Lasciando in disparte il problema generale, se tutte le libertà sostanziali previste in Costituzione implichino un ‘diritto ai mezzi’ necessari per esercitarle, per quanto riguarda specificamente la libertà di religione è lo stesso testo dell’art. 19 Cost. a
stabilire che ciascuno ha il diritto di porre in essere pratiche di culto “in privato o in pubblico”, e “in qualsiasi forma, individuale o associata”. L’esercizio pubblico e/o associato del culto è dunque un aspetto costitutivo ed essenziale della libertà, la quale rimarrebbe figura vuota se non fosse garantita la possibilità materiale di avvalersene anche per tale contenuto.
Sotto il profilo in esame, l’art. 19 Cost. è avvicinabile all’art. 21, il quale testualmente garantisce la libertà di manifestazione del pensiero, oltre che con la parola e con lo scritto, con “ogni altro mezzo di diffusione”. E la giurisprudenza costituzionale, per quanto in alcune decisioni si legga che il diritto di manifestazione “non comprende anche quello di disporre di tutti i possibili mezzi”, è ferma nel senso di scrutinare le norme relative all’accesso e all’uso dei mezzi di diffusione alla stregua della tutela
apprestata dall’art. 21 Cost. L’orientamento della Corte si contrappone dunque nettamente alla tesi, pur autorevolmente avanzata in passato, per la quale la Costituzione si limiterebbe a consentire che ciascuno manifesti ciò che pensa quale che sia il mezzo di cui abbia la disponibilità.