La competenza nella lingua madre o di insegnamento
Adriano Colombo
Strutture formali o compiti di realtà?
La certificazione delle competenze prospettata in forma sperimentale dal Miur (nota n. 2000 del 23 febbraio 2017) è particolarmente complessa, facendo riferimento a un costrutto ‘competenza’ tutto proiettato su contesti reali, in armonia con le ‘competenze chiave’ del documento europeo del 2006. Il porre l’educazione a scuola in rapporto con la vita fuori della scuola è certo un problema importante, ma che non ammette risposte radicali.
Riflettendoci, mi è tornato in mente un episodio reale riferitomi molti anni fa: una ragazzina in svantaggio, frequentante la scuola media, non era in grado di eseguire addizioni e sottrazioni in colonna.
La stessa faceva regolarmente la spesa per la sua famiglia, e si può supporre che fosse in grado di verificare se le veniva dato il resto giusto, o anche la moltiplicazione del prezzo per unità di peso per il peso acquistato.
Evidentemente in questo caso la scuola aveva fallito un suo compito educativo essenziale.
Di fronte a questo tipo di problemi, di cui si possono avere altri esempi in svariati insegnamenti, una risposta possibile sarebbe che l’insegnamento deve riguardare strutture formali (come le operazioni aritmetiche) e non è suo compito riferirle alla realtà esterna; non mancano suggerimenti del genere, ad esempio quando si discute degli insegnamenti umanistici nella secondaria superiore. All’estremo opposto, rifarsi esclusivamente ai ‘compiti di realtà’ vorrebbe dire sostenere che l’aritmetica si impara solo andando a fare la spesa o risolvendo altri problemi reali.
La prima ipotesi ci fa ricadere in un formalismo educativo che l’esperienza ha mostrato improduttivo; la seconda porterebbe alla ‘morte della scuola’ e ad affidarsi a una realtà sociale non sempre educativa.
Mi pare evidente che tra i due estremi sia necessario trovare una mediazione.