Parità di genere: la normativa antidiscriminatoria nella PA
Francesco Maria Nurra
La parità di genere tra donne e uomini, la dimensione di cui ci si occupa nel presente scritto, è uno dei diritti fondamentali e dei principi comuni dell’Unione Europea, condizione imprescindibile per raggiungere gli obiettivi fissati di crescita, occupazione e coesione sociale (art. 2 e art. 3 Trattato).
Nella pubblica amministrazione italiana, vengono individuate quattro principali dimensioni che compongono, l’ambito di intervento delle pari opportunità.
La prima è quella di genere. È la dimensione “primogenita”, la più consolidata e ormai generalmente acquisita. È correlata alla sempre più ampia partecipazione delle donne al mondo del lavoro che, come vedremo in seguito, vede il genere femminile ormai maggioranza stabile nel rapporto di lavoro alle dipendenze della nostra pubblica amministrazione. Sul tema della parità uomo-donna abbiamo circa mezzo secolo di elaborazione normativa e analisi giurisprudenziale, nazionale e sopratutto europea che hanno rinforzato in maniera sostanziale il quadro normativo di riferimento.
La seconda è quella della disabilità. È la dimensione connessa con le diverse forme di svolgimento delle attività lavorative per i soggetti che presentano disabilità fisica e psichica. Anch’essa è ormai acquisita al patrimonio normativo del mondo del lavoro pubblico e privato, pur con molte difficoltà attuative.
Etnia e nazionalità appartengono alla terza dimensione. È l’aspetto che mette in relazione la crescente integrazione tra popoli di diversa etnia e nazionalità come conseguenza delle migrazioni e interazioni che coinvolgono i diversi contesti lavorativi. Soprattutto in ambito europeo, sulla base del principio di libero stabilimento previsto dall’art. 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (ex 43 TCR) e in base all’art. 38 del decreto legislativo n. 165 del 2001 si tende a superare anche il legame con la cittadinanza per l’accesso ai posti di lavoro presso le pubbliche amministrazioni, che non implicano l’esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale.
Infine troviamo la dimensione legata all’appartenenza a un gruppo sociale in senso lato. Ci si riferisce, in generale, a tutte quelle discriminazioni che, a seconda dei contesti, possono nascere dall’appartenenza o meno a determinati gruppi sociali (religione, orientamento sessuale, età, appartenenza partitica, convinzioni politiche). È la dimensione discriminatoria più subdola e odiosa perché, soprattutto nell’ambito pubblico che dovrebbe ispirarsi a ben altri valori di imparzialità e buon andamento, è foriera di emarginazione e demansionamento, da un lato, e di carrierismo e premi alla fedeltà e alla consentanietà partitica e politica dall’altro; spesso la fiduciarietà politica ha il soppravvento sulla fiduciarietà tecnica, indipendentemente dal merito e dalle qualità individuali e professionali.
La parità di genere tra donne e uomini, la dimensione di cui ci si occupa nel presente scritto, è uno dei diritti fondamentali e dei principi comuni dell’Unione Europea, condizione imprescindibile per raggiungere gli obiettivi fissati di crescita, occupazione e coesione sociale (art. 2 e art. 3 Trattato). L’Unione si fonda infatti sui valori comuni agli Stati membri, del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti, del pluralismo, della non discriminazione, della tolleranza, della giustizia, della solidarietà e della parità tra donne e uomini. Sul tema della parità di genere, e conseguentemente del tema della discriminazione di genere, è stato costruito, in decenni di produzione legislativa e giurisprudenziale, il corpus normativo che ha costituito la base giuridica delle altre dimensioni.
La parità di genere nelle pubbliche amministrazioni
Frequentemente, per definire l’ambito di studio e di intervento delle politiche di pari opportunità e parità di genere, si ricorre al termine gender mainstreaming. È un concetto utilizzato per la prima volta nei testi internazionali negli anni ‘80 del secolo scorso, e viene inserito nella Piattaforma per l’azione, come la strategia chiave per promuovere le pari opportunità nella III Conferenza Mondiale sulle donne delle Nazioni Unite, a Nairobi nel 1985 e nella IV Conferenza Mondiale di
Pechino nel 1995. È stato recepito oggi anche nell’art. 23 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Il termine deriva dall’inglese gender (genere), e mainstream, parola composta da main (principale) e stream (corrente). In italiano viene tradotto come “corrente principale” e di conseguenza “tendenza dominante” “opinione corrente”. Si definisce mainstream ciò che è piuttosto convenzionale o “di massa”. Si tratta di un termine che suggerisce un’integrazione sistematica dell’attenzione a situazioni, priorità e necessità delle donne e degli uomini in tutte le politiche.