L’illegittimo demansionamento nei recenti orientamenti giurisprudenziali
Gianluca Iosca
La tematica del demansionamento si configura attuale e di sicuro interesse, ed è significativo che il legislatore, negli ultimi anni, sia intervenuto per modificarne in modo rilevante la disciplina normativa: sono stati modificati parametri sostanziali come il concetto di equivalenza della prestazione lavorativa, che, per anni, hanno costituito punti di riferimento essenziali e fondamento di tutela normativa per il prestatore di lavoro.
Con l’art. 13 dello Statuto dei Lavoratori, il lavoratore doveva essere adibito alle mansioni per le quali era stato assunto o la categoria superiore; veniva affermata l’indisponibilità della posizione professionale del lavoratore, sanzionando con la nullità di ogni accordo per mansioni inferiori.
Il concetto di equivalenza della prestazione lavorativa si poneva, quindi, come limite invalicabile per l’esercizio dello ius variandi.
Proprio in virtù della centralità della nozione di equivalenza si rendeva necessario rinvenire, nell’interpretazione giurisprudenziale, una casistica sulle mansioni equivalenti fondata su criteri valutativi concretamente ancorati all’effettivo patrimonio professionale del lavoratore, non certo ad un vago concetto di affinità (così ad esempio Cass. 29 settembre 2008, n. 24293).
Il quadro normativo e giurisprudenziale precedente alla riforma introdotta dal Jobs Act impediva l’assegnazione del dipendente a mansioni inferiori o non equivalenti sanzionandola con la nullità e consentendo l’individuazione, al di fuori delle ipotesi consentite, di diversi profili di danni risarcibili, siano essi il danno patrimoniale quale danno emergente e/o lucro cessante, siano le varie possibili articolazioni del danno non patrimoniale.
Con la nuova formulazione normativa introdotta dal Testo unico di riordino dei contratti di lavoro (d.lgs. 81/2015, c.d. Jobs Act) sono stati rivisti i limiti dello ius variandi e i confini dell’illegittimo demansionamento; nella sostanza si configura l’essenziale passaggio dalla obbligatorietà del rispetto del requisito dell’equivalenza a quello del livello e della categoria legale.
Il legislatore, avendo avvertito la necessità di assecondare particolari esigenze di flessibilità – soprattutto da parte delle imprese – rendendo più elastico l’assetto normativo, a seguito di varie aperture giurisprudenziali innovative ha modificato l’orizzonte dell’equivalenza professionale acconsentendo l’adibizione a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte (così la nuova formulazione dell’art. 2103, comma 1).
Il livello contrattuale, inteso come categoria legale di inquadramento, costituisce un limite che consente al datore di lavoro una più ampia possibilità di spostamento del lavoratore rispetto al previgente criterio di equivalenza, e ciò anche in considerazione del fatto che tale potere deve essere esercitato in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore (comma 2); anche la previsione nei contratti collettivi di assegnazione a mansioni inferiori, sempre rientranti nella medesima categoria legale, amplia la casistica del nuovo ius variandi, (comma 4) senza contare che l’introduzione della necessità dell’assolvimento di un obbligo formativo contestuale al mutamento delle mansioni (comma 3) costituisce un limite piuttosto blando, non determinando peraltro la nullità dell’atto di assegnazione in ipotesi di mancato adempimento.
La circostanza che, di fatto, la nuova formulazione dell’art. 2013 c.c. preveda la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni riconducibili ad un livello di inquadramento inferiore anche senza il suo consenso rende quantomai opportuno prendere in esame recenti orientamenti giurisprudenziali in materia.
I recenti orientamenti della giurisprudenza
In considerazione di quanto sopra riferito in relazione al recente mutamento della normativa applicabile al fenomeno del demansionamento, la giurisprudenza è da ultimo intervenuta con numerose sentenze ed ordinanze sulla materia, onde meglio precisare i confini – ora meno netti – della condotta inadempiente da parte del datore di lavoro, e individuare le categorie dei danni risarcibili. Già nel previgente regime normativo la Cassazione esprimeva principi di carattere generale, tuttora condivisibili, di definizione della condotta dequalificante da parte del datore di lavoro, rimarcando, tra l’altro, che la lamentata sottoutilizzazione del dipendente debba avere carattere permanente e non temporaneo o funzionale all’avvio di nuova struttura operativa (Cass. civ. lav. 7.10.2008 n. 24738); ad esclusione, pertanto, del caso in cui le mansioni inferiori si aggiungono ma non soppiantano quelle proprie della qualifica di appartenenza (Cass. civ. sez. lav., 7.8.2006, n. 17774).
Il fenomeno del mobbing è stato preso in esame dalla giurisprudenza degli ultimi anni in relazione al demansionamento del lavoratore nella ricerca di elementi in comune e fattispecie in cui si riscontrino entrambe le condotte da parte del datore di lavoro; è comunque evidente che la prima fattispecie è caratterizzata da una condotta, continua e protratta nel tempo, che deve determinare un comprovato7 pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore in ragione di un intento persecutorio.
Il demansionamento e/o la dequalificazione possono essere ricompresi nel quadro più generale di una condotta riconducibile al mobbing; gli orientamenti giurisprudenziali in merito, in particolare Cass. sez. lavoro 13.10.2016, n. 20677 e Cass., sez. lavoro, 22 febbraio 2016, n. 3291, tendono purtuttavia a salvaguardare il lavoratore che ha subito un ingiusto demansionamento individuando un regime probatorio meno rigoroso, preservando il diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali e professionali del lavoratore che non riesca a dimostrare una condotta persecutoria a suo danno: infatti, “[…] Il danno da demansionamento professionale, ferma restandone la necessità di allegazione da parte di chi lo lamenti, può legittimamente ricavarsi anche in via presuntiva o mediante ricorso a massime di comune esperienza ex art. 115 cpv. c.p.c. (cfr., ex aliis, Cass. n. 4652/09; Cass. S.U. n. 6572/06). […]” (Cass. 20677/2016).