Il whistleblower: un “segnalatore” rafforzato o nuove insidie per i responsabili anticorruzione
Massimiliano Alesio
Non vi è dubbio che l’istituto del segnalatore di condotte illecite abbia costituito una novità quasi assoluta nel panorama normativo ed organizzativo delle pubbliche amministrazioni e dia luogo, tuttora, a rilevanti incomprensioni o diffidenze. Già il termine inglese di “whistleblower” presenta chiare difficoltà ad essere correttamente tradotto, nell’orizzonte di un’esegesi non meramente letterale, in quanto può essere facilmente confuso con altri concetti, quale quello di “delatore” o “spione”, correlati a condotte e discipline di azione ben diverse. Il tutto, poi, non è stato affatto chiarito dalla recente approvazione del disegno di legge n. 2208, recante modifiche all’attuale normativa e denominato “Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato”. Ma, procediamo con ordine.
Introduzione
La legge 6 novembre 2012, n. 190, recante le “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, in ossequio agli indirizzi internazionali, ha predisposto un pervasivo reticolo di controlli in chiave preventiva e deterrente, oltre che sanzionatoria, articolato sul duplice livello, centrale e periferico, allo scopo di contemperare le esigenze di uniformità e quelle di autonomia, che presiedono all’assetto costituzionale del nostro ordinamento. Il primo livello è incentrato sul Piano nazionale anticorruzione (PNA), con il precipuo scopo di assicurare l’attuazione coordinata delle strategie di prevenzione della corruzione nel settore pubblico, elaborate sia a livello nazionale, che internazionale. Il secondo livello è affidato ai Piani triennali di prevenzione della corruzione (PTPC), elaborati ed approvati da ciascuna pubblica amministrazione, in aderenza al nucleo precettivo inderogabile fissato dal primo, e recanti le misure organizzative e gestionali necessarie a scongiurare il verificarsi dei rischi corruttivi nei diversi gangli burocratici e funzionali.
Tra le parti dei PTPC, che il PNA individua come necessarie, vi è quella dedicata ai codici di comportamento, nel cui ambito vanno obbligatoriamente inserite le informazioni inerenti ai meccanismi di denuncia delle violazioni del codice di comportamento ed all’adozione di misure per la tutela del whistleblower, cioè del dipendente che denuncia condotte illecite poste in essere all’interno dell’ente di appartenenza. La legge n. 190/2012 assegna un ruolo fondamentale a tale innovativa figura, nell’ambito della prevenzione della corruzione, tanto da introdurre una specifica disposizione nel tessuto del testo unico dei rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni (d.lgs n. 165/2001): l’articolo 54-bis, oggetto di recente modifica legislativa.
Il nomen
Ritorniamo, ora, al problema della corretta interpretazione del termine. Trattasi di una questione non secondaria, dal momento che un superficiale approccio in merito darebbe luogo sicuramente a facili equivoci ed incomprensioni.
Nel mese di febbraio del 2014, la redazione del quotidiano “Pagina 99” si è rivolta all’Accademia della Crusca, al fine di ottenere un parere su come tradurre in italiano il termine inglese whistleblower. L’Accademia ha risposto con una nota lessicale pubblicata dallo stesso quotidiano il 28 febbraio 2014, nella quale viene evidenziato che nlessico italiano non esiste una parola semanticamente equivalente al termine inglese. Precisamente: “Manca la parola, ma è innanzitutto il concetto designato a essere poco familiare presso l’opinione pubblica italiana. L’assenza di un traducente adeguato è, in effetti, il riflesso linguistico della mancanza, all’interno del contesto socio-culturale italiano, di un riconoscimento stabile della “cosa” a cui la parola fa riferimento”.
Invero, il significato lessicale originale sembra essere chiaro. Se prestiamo attenzione, infatti, alla forma originale, il composto inglese, parafrasabile letteralmente come “chi soffia (blower) nel fischietto (whistle)”, deriva dall’espressione metaforica to blow the whistle che, inizialmente, a partire dai primi anni ’30 del Novecento, veniva usata col significato di “interrompere qualcosa bruscamente” proprio come farebbe un arbitro con un colpo di fischietto. L’espressione, successivamente, venne utilizzata in senso gergale per indicare, talora in modo negativo, il soggetto “che vuota il sacco”, lo spione, colui che fa una soffiata. Siffatti sviluppi lessicali hanno, invero, determinato seri equivoci, dal momento che il termine inglese è stato scorrettamente tradotto in italiano come spia, delatore, talpa, informatore o anche spifferatore, soffiatore. Siffatti termini non sembrano garantire l’equivalenza, né denotativa né connotativa, del termine whistleblower, dal momento che veicolano connotazioni negative di segretezza ed anonimato legati a slealtà, al tradimento di un patto di fiducia, generalmente motivato da un tornaconto o un interesse personale. A ben vedere, in nessun modo, queste “traduzioni” sono associabili in italiano ad un comportamento etico, virtuoso, manifestazione di senso civico, quale dovrebbe essere quello del whistleblower. Un’altra espressione usata è quella di “gola profonda”. Tuttavia, tale termine si rivela insoddisfacente, in quanto fortemente legato, nel nostro immaginario, al contesto giornalistico. Nel nostro lessico, una gola profonda niente altro che è l’informatore anonimo, che rivela informazioni “scottanti” a un giornalista, mentre il whistleblower non è una fonte anonima, anche quando la sua identità deve rimanere riservata per prevenire ritorsioni.
Sono state avanzate anche altre traduzioni come “vedetta civica” o “sentinella civica”, reperibili all’interno della prima ricerca pubblicata da Trasparency International Italia, intitolata Protezione delle vedette civiche: il ruolo del whistleblowing in Italia del 2009. Tuttavia, queste designazioni non appaiono corrette, dal momento che le parole sentinella e vedetta rimandano all’idea di un ruolo codificato, istituzionalizzato, quasi professionalizzato e non di una scelta che si potrebbe presentare a chiunque.
Restano, poi, le opzioni lessicali più neutre di “denunciatore, denunciante, segnalatore, segnalante”.
Quest’ultima, invero, compare nel testo della legge n. 190/2012, insieme alla perifrasi ‘dipendente pubblico che segnala illeciti’. Dunque, siamo in presenza di una traduzione “ufficiale”, che, seppur non errata, non coglie il precipuo significato del termine. Infatti, anche queste forme hanno il “difetto” di essere parole generiche, dal significato ampio e vago. Molto correttamente, l’Accademia segnala che “le parole non entrano nel lessico di una lingua e negli usi di una comunità per imposizione dall’alto: soltanto il progredire del dibattito intorno al tema e l’intensificarsi dell’interesse pubblico per la “cosa” designata consentirà di sviluppare e radicare una designazione linguistica condivisa”.
Dunque, i termini stranieri non entrano nel lessico comune per imposizione dall’alto, ma vengono filtrati ed arricchiti dall’uso del termine medesimo, oltre che dal connesso dibattito sull’utilizzo medesimo.
Invero, una definizione (ed anche traduzione) molto puntuale del termine whistleblower è stata già data, tempo fa, da Ralph Nader, noto attivista e politico statunitense. Precisamente, Nader, nel 1972, in una conferenza sulla “Responsabilità professionale”, così definì il whistleblowing: “l’azione di un uomo o una donna che, credendo che l’interesse pubblico sia più importante dell’interesse dell’organizzazione di cui è al servizio, denuncia/segnala che l’organizzazione è coinvolta in un’attività irregolare, illegale, fraudolenta o dannosa”.
Tale definizione è molto importante ed occorre riconoscere il merito di Nader nell’aver posto in essere una rideterminazione semantica, facendo diventare la parola un termine vero e proprio, che individua un referente preciso, non più generico, con un tratto connotativo positivo di impegno civile, etico. L’operazione linguistico-concettuale di Nader ha avuto successo, tanto che in un supplemento del 1986, l’Oxford English Dictionary ha introdotto le voci wistleblowing e whistle-blower, prima non registrate, accogliendole nel lessico angloamericano come termini neutri, di livello standard, per indicare il referente proposto da Nader.
Dunque, la parola whistleblower indica una persona che, lavorando all’interno di un’organizzazione, di un’azienda pubblica o privata, si trova ad essere testimone di un comportamento irregolare, illegale, potenzialmente dannoso per la collettività e decide di segnalarlo all’interno dell’azienda stessa o all’autorità giudiziaria o all’attenzione dei media, per porre fine a quel comportamento”. Gli elementi essenziali del concetto sono i seguenti:
1. persona che lavora in un’organizzazione;
2. persona testimone di un comportamento irregolare-illegale;
3. persona che decide di segnalare il comportamento.