Misurazione performance aziendali e valutazione della dirigenza
Eugenio Anessi Pessina
L’ultimo numero del 2016 sviluppa principalmente due temi: da un lato, la misurazione delle performance aziendali, con due saggi dedicati rispettivamente agli equilibri finanziari degli atenei statali e all’efficienza delle aziende ospedaliere; dall’altro, la valutazione della dirigenza pubblica e la propedeutica misurazione delle performance intra-organizzative, con un saggio e due “esperienze innovative”, tutti focalizzati sul livello centrale (Ministeri, Presidenza del Consiglio, INPS). Completa il numero, per la sezione “attualità e dibattito”, un breve contributo degli ex presidenti di EGPA sulle prospettive europee per la pubblica amministrazione.
Il primo saggio (La performance finanziaria degli atenei statali italiani: un’indagine empirica) si propone di valutare lo stato di salute finanziaria degli atenei statali italiani nel quadriennio 2009-12, ossia in un periodo in cui, alla tradizionale difficoltà di attrarre risorse private, si è aggiunta una progressiva riduzione dell’FFO.
I risultati, calcolati per singolo ateneo e tradotti in un indice sintetico, sono successivamente raggruppati sia per classe dimensionale sia per area geografica. Emerge così che, mediamente, gli atenei del nord conseguono performance solo leggermente migliori rispetto a quelli del centro e del sud. Gli atenei di dimensioni estreme (piccoli e molto grandi), inoltre, conseguono performance più alte rispetto a quelli di dimensioni intermedie (medi e grandi), evidenziando la presenza di un limite dimensionale oltre il quale le economie di scala si annullano.
Di altrettanto interesse, però, è la metodologia proposta, pur con l’inevitabile limite rappresentato dalla disponibilità dei soli dati di contabilità finanziaria, dato che la contabilità economico-patrimoniale è divenuta obbligatoria solo in tempi più recenti rispetto al periodo analizzato. In particolare, seppur attingendo a diverse fonti (la normativa per le università, la letteratura sui risultati finanziari delle aziende pubbliche, le indagini empiriche sul dissesto degli enti locali ecc.), il saggio propone un sistema di indicatori specificamente pensato per valutare gli atenei statali, in termini di liquidità (coerenza fra andamenti del risultato di amministrazione e del fondo cassa; incidenza dei residui attivi e passivi in conto competenza su accertamenti e impegni; rapporto fra residui attivi e passivi; velocità di riscossione delle entrate e di pagamento delle spese; rapporto tra la spesa per il personale di ruolo e a tempo determinato e le entrate complessive), nonché di indebitamento e autonomia finanziaria (saturazione dei limiti di indebitamento, ottenuta rapportando le uscite per il rimborso dei prestiti e il pagamento degli interessi alle entrate correnti; incidenza dei debiti di finanziamento sull’FFO e sulle entrate complessive; incidenza delle entrate proprie sulle entrate complessive; rapporto tra le risorse che l’ateneo ottiene dalla rete di rapporti con il territorio e le imprese e l’FFO). Con questi indicatori, nonché con la loro trasformazione in un rating sintetico, si rendono trasparenti i dati difficilmente interpretabili del rendiconto finanziario, incoraggiando le azioni manageriali intraprese o, al contrario, facendo emergere problematiche meritevoli di interesse da parte della governance e dei revisori, dei finanziatori e degli organi politici, nonché degli utenti diretti e della collettività.
In parziale analogia, il secondo saggio (Assetto proprietario e performance degli ospedali. Un’analisi sulle più grandi strutture del Veneto) si propone di analizzare le performance delle aziende ospedaliere. L’analogia è solo parziale, perché l’analisi concerne l’efficienza anziché gli equilibri finanziari, è limitata alle grandi strutture di una sola regione anziché investire l’intera popolazione nazionale, ma d’altra parte si estende anche alle strutture private. Analoghe, però, sono le premesse (la scarsità di risorse), le unità di analisi (le singole aziende anziché le performance intra-organizzative o, al contrario, di sistema), la rilevanza della metodologia impiegata (nello specifico, una input-oriented Data Envelopment Analysis), nonché alcune conclusioni, tra cui l’esaurirsi delle economie di scala oltre una certa dimensione.
Scopo principale dell’analisi è verificare l’incidenza dell’assetto proprietario sulle performance aziendali. In merito, emerge una maggiore efficienza delle strutture private rispetto a quelle pubbliche. Almeno in parte, però, questa maggiore efficienza risulta riconducibile ai più ampi margini d’azione di cui godono le strutture private: in particolare, la localizzazione in aree ad alta densità abitativa e caratterizzate da un più elevato tasso di anzianità della popolazione. Molto rilevante, d’altra parte, risulta anche l’indice di rotazione dei posti letto, che sottende una maggiore capacità dell’azienda di assorbire i costi fissi di struttura. Inaspettatamente, la concentrazione delle prestazioni ospedaliere su un numero limitato di specialità pare condizionare negativamente le performance di efficienza, mentre per quanto concerne la dimensione l’impatto sulle performance è positivo fino a una soglia, oltre la quale le economie di scala si annullano.
Al di là del ruolo da riconoscere al privato accreditato nell’ambito di un Servizio Sanitario Regionale, che per molti versi trascende le analisi di natura tecnica, emergono quindi dal saggio importanti indicazioni per i policy maker, cui spettano le complesse scelte in materia di accorpamento delle strutture ospedaliere e riconfigurazione delle reti di offerta dei servizi sanitari.
Con il terzo saggio (La profilazione della dirigenza pubblica: una proposta metodologica), l’attenzione si sposta verso la dirigenza pubblica nelle amministrazioni centrali. Il saggio prende spunto da un’evidente carenza. Da un lato, infatti, alla dirigenza pubblica si riconosce unanimemente un ruolo centrale nella modernizzazione della PA; anche la legge Madia delega il governo a intervenire, con successivi decreti attuativi, sull’organizzazione e sul personale. In questo contesto, diventa quindi particolarmente importante formare e motivare adeguatamente i dirigenti, partendo da un’opportuna profilazione. D’altro lato, però, l’individuazione e la descrizione di raggruppamenti di dirigenti pubblici si sono tradizionalmente basate solo su caratteristiche socio-anagrafiche (tipo di formazione scolastica, età, background professionale ecc.), ritenendo che tali fattori potessero già di per sé cogliere atteggiamenti e comportamenti. Il saggio, per contro, prova a proporre una metodologia di profilazione più robusta e articolata. Il contributo è almeno triplice.
In primo luogo, il saggio chiarisce come non possa esistere un unico modello di profilazione, associato a un unico sistema di indicatori. Al contrario, è indispensabile chiarire in via preliminare l’obiettivo di profilazione, per poi svolgere coerentemente le fasi successive: scelta del modello teorico a supporto del processo di profilazione; validazione del modello teorico ed estrazione di fattori funzionali alla profilazione; realizzazione della profilazione utilizzando i fattori estratti a partire dal modello teorico.
In secondo luogo, il saggio propone un’applicazione della metodologia proposta rispetto a uno specifico obiettivo: classificare la dirigenza pubblica in base alla percezione di utilità delle attività manageriali e dei connessi strumenti. Da tempo, infatti, le varie riforme della PA pongono sistematicamente l’accento sull’autonomia decisionale del management e sullo svolgimento di attività manageriali tramite strumenti di gestione derivati dal contesto di impresa. Più specificamente, il saggio sceglie come modello teorico il ciclo direzionale (pianificazione e programmazione, organizzazione, conduzione, controllo); lo integra tramite riferimenti al ruolo delle associazioni manageriali e della consulenza; lo traduce infine in un apposito questionario con il triplice intento di validarlo empiricamente, favorirne l’adozione in altri contesti ed esemplificare le possibili implicazioni manageriali connesse a una profilazione della dirigenza.
In terzo luogo, il processo di validazione empirica, svolto sui dirigenti dei Ministeri nel periodo 2009-10, fornisce un’interessante rappresentazione della dirigenza ministeriale nel momento in cui diventava operativa la riforma Brunetta (d.lgs. 150/09) e suggerisce interessanti implicazioni manageriali. In particolare, emerge tra i dirigenti dei Ministeri una certa consapevolezza delle attività di base che un manager deve padroneggiare e dell’utilità dei relativi strumenti. Questa consapevolezza, però, è generalmente parziale e frammentata, come evidenziano tre dei cinque cluster individuati dall’analisi: ciascuno, infatti, appare caratterizzato dall’attenzione pressoché esclusiva verso specifiche attività e correlati strumenti (rispettivamente la programmazione, il controllo, la valorizzazione delle risorse umane), mentre nessuno sembra aver metabolizzato appieno la dimensione complessiva del processo di cambiamento. Sotto il profilo manageriale, pertanto, gli appartenenti ai tre cluster sembrano richiedere azioni di accompagnamento mirato che incidano sul sostrato teorico e culturale in modo da chiarire, in maniera ancora più esplicita, che il cambiamento non risiede nel semplice utilizzo di alcuni strumenti o tecniche, ma è un processo complessivo finalizzato alla realizzazione di una diversa modalità di gestione della PA. Gli appartenenti al terzo cluster (quello focalizzato sulla valorizzazione delle risorse umane), d’altra parte, potrebbero venire impiegati come attivatori di dinamiche motivazionali, dislocandoli strategicamente nelle posizioni chiave dei diversi Ministeri. Ancor più problematici sono gli ultimi due cluster. Il quarto cluster sembra consapevole dei propri limiti, per cui è interessato all’apprendimento; nello stesso tempo, mostra una predilezione per la soluzione dei problemi attraverso consulenti esterni; va quindi ulteriormente indagato per capire se prevalga lo spirito positivo del voler apprendere o quello negativo di voler scaricare su consulenti esterni attività e responsabilità. Il quinto cluster, infine, manifesta una complessiva sfiducia verso il sistema. La limitata anzianità media nel ruolo, tra l’altro suggerisce che vi appartengano i nuovi entrati, che forse hanno provato a operare un cambiamento, ma che hanno visto naufragare i propri tentativi, rimanendo frustrati, con il rischio di condizionare negativamente il funzionamento dell’amministrazione per i prossimi decenni. Pertanto, la motivazione attraverso un rilancio del merito e della trasparenza, unita a un riesame critico dei sistemi di reclutamento, selezione e inserimento impiegati nei loro confronti, potrebbe essere un’azione da considerare.
La sezione “Esperienze innovative” è anch’essa dedicata al tema della dirigenza pubblica a livello centrale. Il primo contributo (Senza la riforma della dirigenza addio ai nuovi modelli di leadership nella PA? L’esperienza Inps nel dopo-Madia), in particolare, concerne l’INPS.
Punto di partenza è la necessità, per le amministrazioni pubbliche, di dirigenti che siano in grado di esercitare capacità di leadership, nel senso sia di cogliere le necessità di cambiamento per promuoverlo e guidarlo, sia di sostenere i propri collaboratori al fine di generare consenso, adesione al lavoro e voglia di mettersi in gioco per la crescita professionale e dell’organizzazione.
L’articolo presenta dunque un progetto, realizzato nel 2016, che si proponeva di conoscere le risorse a disposizione dell’Istituto e le loro capacità, esaminarne le potenzialità, progettare e pianificare adeguati percorsi formativi, di carriera e di job rotation. Il primo passo è stato quello di individuare le soft skill più significative per far emergere le capacità di leadership, raggruppandole in quattro macro aree: cognitiva, realizzativa, relazionale, più una quarta area denominata “meta capacità” e riferita all’orientamento al cambiamento e alla consapevolezza di sé. Successivamente si è svolta la valutazione, durante la quale i dirigenti dell’Istituto sono stati impegnati in diverse attività, ciascuna delle quali ideata, misurata e pesata in modo da evidenziare la frequenza dei comportamenti agiti con riferimento alle competenze messe in campo nell’ambito delle prove. I risultati della valutazione sono poi stati sistematizzati secondo una matrice di posizionamento dei partecipanti le cui dimensioni sono rappresentate dal valore medio ottenuto nelle tre aree di competenze (cognitiva, realizzativa, relazionale) e da quello delle meta-capacità. La combinazione tra i due valori ha determinato il “margine di sviluppo”, ossia un indicatore di analisi del potenziale di crescita professionale della persona. Ciò ha consentito sia di programmare coerenti attività formative, sia di impostare più generali percorsi di crescita manageriale.
Sempre con riferimento alla dirigenza pubblica, particolarmente critico è il tema della valutazione delle performance da porre alla base dei sistemi premiali. Ciò è tanto più vero quanto più le attività svolte dalle amministrazioni pubbliche sono intrinsecamente pubblicistiche e quindi sfuggono dai criteri di misurazione impiegabili per i beni e servizi a domanda prevalentemente individuale. A tal proposito, il secondo contributo della sezione “Esperienze innovative” (Performance e complessità organizzativa e funzionale: la misurazione della performance per il miglioramento dell’azione amministrativa della Presidenza del Consiglio dei ministri) si concentra su un caso particolarmente emblematico di struttura che svolge appunto un’amplissima gamma di attività prettamente pubblicistiche: la Presidenza del Consiglio dei Ministri. L’articolo, in particolare, sintetizza il funzionamento del “sistema della performance” della Presidenza e descrive alcune modifiche recentemente avviate, in via amministrativa, in attesa della completa attuazione della Riforma Madia.
Dal contributo emergono due indicazioni di fondo. Da un lato, anche per le strutture come la Presidenza del Consiglio e per le attività che essa svolge (prevalentemente di “impulso e coordinamento” all’operato di altri soggetti, interni ed esterni all’Esecutivo e allo stesso settore pubblico), è possibile ipotizzare un “ciclo della performance” fondato su appositi indicatori. Dall’altro, però, è importante evitare che la normativa imponga metodologie, strumenti e misure eccessivamente uniformi alla globalità delle amministrazioni pubbliche, dimenticando l’ampia differenziazione inter e intra-aziendale che caratterizza le amministrazioni stesse.
Con riferimento alla prima indicazione, infine, l’articolo espone nel dettaglio gli indicatori utilizzati per le varie tipologie di attività, fornendo quindi spunti utili anche per altre amministrazioni, nella misura in cui anche in esse siano presenti attività di “impulso e coordinamento” anziché di produzione ed erogazione di beni e servizi.
Infine, chiude il numero la sezione “Attualità e Dibattito”, che accoglie un breve intervento degli ex presidenti di EGPA sulle prospettive europee per la pubblica amministrazione.
L’intervento evidenzia come la comunità scientifica che si occupa di PA in Europa si sia trasformata notevolmente negli ultimi decenni, crescendo notevolmente in termini di dimensioni, sviluppando le proprie capacità di ricerca e formazione, nonché superando progressivamente la tradizionale frammentazione in comunità nazionali poco permeabili tra loro. Afferma, d’altra parte, la necessità di assicurare che la ricerca sulla PA resti attuale e rilevante per chi opera nel settore pubblico. Si tratta, in altri termini, di riflettere su come rimanere rilevanti nel futuro e su come anticipare gli sviluppi futuri.
In merito, gli autori formulano due proposte fondamentali. In primo luogo, affermano la necessità di un’evoluzione non solo da “Pubblica Amministrazione nei singoli stati membri” a “Pubblica Amministrazione in Europa”, ma anche da quest’ultima a “Pubblica Amministrazione Europea”, dove la “Pubblica Amministrazione in Europa” applica conoscenze generali alla sfera europea della PA, mentre la “Pubblica Amministrazione Europea” dovrebbe parte dalle particolarità europee per poi generalizzare. In secondo luogo, identificano quattro tematiche chiave su cui riflettere: l’interdisciplinarietà, l’internazionalità / multiculturalismo, gli scenari futuri, il rapporto coi practitioner.
Per gli autori, naturalmente, tutto ciò si traduce principalmente nelle implicazioni per l’attività futura di EGPA. La pubblicazione del contributo in Azienda Pubblica, però, ambisce ad avviare un dibattito su questi temi anche all’interno della comunità degli aziendalisti pubblici italiani.