Questioni pratiche (edilizie ed urbanistiche) relative alla ricostruzione di edifici, in tutto o in parte, crollati
Andrea Di Leo
L’introduzione, da parte della l. n. 98/2013 (c.d. Decreto del fare), della possibilità di ripristinare edifici non più esistenti tramite ristrutturazione ha determinato non indifferenti questioni non solo di tipo dogmatico ma anche al livello operativo.
Il contributo, quindi, si propone di esaminare le prime risposte pervenute dalla prassi e dalla giurisprudenza, cercando un possibile punto di equilibrio tra l’approccio più restio a cogliere l’innegabile novità normativa e le zone d’ombra presenti nella scelta “liberalizzatrice” del legislatore.
1. Il “nuovo” art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001
Come noto, con una previsione volta a “favorire la riqualificazione del patrimonio edilizio esistente ed evitare
ulteriore consumo del suolo”, l’art. 30, comma 1, lettera a), legge n. 98 del 2013 ha previsto la possibilità, tramite ristrutturazione edilizia, di realizzare interventi “volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”(così il nuovo art. 3, comma 1,
lett. d) del d.P.R. n. 380/2001).
L’innovazione è evidentemente radicale, solo che si consideri come interventi di tale genere fossero in precedenza pacificamente da annoverare nella categoria della nuova costruzione.
Infatti, l’unico caso in cui una ricostruzione era da considerare come ristrutturazione edilizia era quello della demolizione e contestuale ricostruzione (anche detta, con formula sintetica, “demo-ricostruzione”, proprio ad indicare la natura unitaria dell’intervento).
Oggi, come detto, il quadro ha subito una rivoluzione “copernicana” che, sebbene ormai non più recentissima (la novella normativa risale ormai a quasi quattro anni addietro), non pare essere ancora stata del tutto assimilata.
Le ragioni di tale difficoltà, più operativa che teorica, risiedono non solo nell’atteggiamento prudente di amministrazioni e giurisprudenza (preoccupate dagli abusi dell’istituto in esame) ma anche nella circostanza che il legislatore non ha forse attentamente ponderato e disciplinato né gli aspetti pratici della norma né le ricadute di tipo urbanistico.
In altre parole, ci si riferisce, ai fini che qui rilevano, essenzialmente a tre profili:
a) qual è la “preesistenza” alla quale la norma si riferisce?
b) qual è l’onere probatorio che grava su chi intenda ripristinare un edificio, anche non più esistente?
c) che relazione intercorre tra il ripristino dell’edificio e la disciplina urbanistica intervenuta successivamente alla scomparsa dello stesso?
2. Cosa si deve intendere per preesistente consistenza
Partendo dalla prima questione, si nota immediatamente che la norma – come prima accennato – non si preoccupa in alcun modo di indicare cosa sia da intendere per “preesistente consistenza”.
Il “ventaglio” di ipotesi è, evidentemente, piuttosto ampio e va da una nozione (minimale) fisica, dovendo in tal caso riferirsi ai soli dati “strutturali” (sedime, ingombro, volume, ecc.) ad un approccio anche funzionale (che ricomprende, dunque, la destinazione d’uso).
L’adesione all’una o all’altra opzione ha ricadute non solo sul profilo probatorio (che si esaminerà nel §.3) ma anche sul coordinamento tra ripristino e pianificazione urbanistica (sulla quale si veda il §.4).
In favore di una lettura prettamente “fisica” della nozione di consistenza – che prescinda, cioè, dall’elemento funzionale (la destinazione d’uso) – vi sono alcuni argomenti “testuali” e, in parte, sistematici.