Reddito di cittadinanza: i controlli anagrafici fra luci e ombre
Romano Minardi
Il Reddito di cittadinanza (“Rdc”) festeggia il suo primo anno di vita; misura controversa, oggetto di forti apprezzamenti e critiche pesanti, si è rivelata, come era sembrato inevitabile fin dall’inizio, di applicazione complessa, soprattutto in relazione alla verifica del possesso dei requisiti che i richiedenti devono dichiarare al momento della domanda.
Un primo bilancio sui controlli che i vari soggetti coinvolti sono chiamati a svolgere al fine di smascherare e contrastare false dichiarazioni e illegittimi beneficiari, presenta poche luci e molte ombre.
L’art. 2, comma 1, del Decreto Legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito in legge 28 marzo 2019, n. 26, è la norma fondamentale alla quale occorre fare riferimento per una corretta gestione dei controlli sul possesso dei requisiti che il richiedente ha dichiarato al momento della presentazione della domanda di Rdc. Si tratta di un controllo successivo alla richiesta e al momento dal quale il richiedente inizia a percepire il Rdc. Il termine per effettuare tali controlli è stabilito dall’art. 2 dell’Accordo sancito in sede di conferenza Stato-città ed autonomie locali, in trenta giorni dal riconoscimento del beneficio. Si tratta di un termine ordinatorio che, peraltro, nessun comune, almeno fino ad ora, ha potuto rispettare, in parte a causa del ritardo con cui i comuni sono stati posti in condizione di comunicare i dati all’Inps, in parte per le prevedibili difficoltà organizzative affrontate per la gestione del nuovo servizio.
I controlli devono essere gestiti tramite la piattaforma digitale denominata “GePI”, che è stata messa a disposizione dei comuni con grande ritardo e con gravi carenze funzionali e che, ancora oggi, si presenta come work in progress…