Status e ruolo del segretario comunale: una moderna araba fenice
di Tiziano Tessaro
La tematica inerente alla figura del Segretario comunale è una di quelle che ritorna periodicamente alla ribalta e che potremmo, forse a ragione, indicare come l’emblema, in ambito amministrativo, della resilienza, ovvero della capacità di non lasciarsi abbattere dalle difficoltà, di reagire e di rialzarsi più forti di prima: anche al di là delle riforme via via varate o solo preannunciate nel corso degli anni.
Un illustre maestro, all’indomani del varo delle riforme dei provvedimenti legislativi “figli” della riforma costituzionale del 2012, l’aveva peraltro lucidamente sottolineato, interrogandosi sulle sorti della figura e sulla sua adattabilità al mutato quadro normativo: “La legge n. 190 riflette un tipo di visione, un profilo, una concezione del segretario comunale (…) che pone in evidenza un dubbio: una volta che il segretario metta quel cappello, tendenzialmente di garante della legalità e della correttezza dell’amministrazione a vantaggio di tutti, maggioranza e opposizioni, e nell’interesse complessivo dell’ordinamento, riesce anche contemporaneamente a porsi come motore dell’attuazione del programma di governo del Sindaco? Il segretario comunale riesce ad essere il punto di riferimento che garantisce tutti i consiglieri di qualunque provenienza, siano di qualunque colore e di qualunque posizione rispetto alla gestione del Sindaco e a rivestire, al tempo stesso, la posizione di principale collaboratore fiduciario del Sindaco? Non c’è qualche cosa che stride in tutto questo? Non c’è bisogno di ricondurre ad un disegno che tenga conto dei punti di frizione e di delicatezza?”.
Il nodo gordiano, se vogliamo, era stato, come nel mito, sciolto in modo traumatico, ponendo mano, nelle intenzioni del legislatore delegato (legge 7.8.2015, n. 124), alla soppressione della figura del segretario comunale.
Nel frattempo, molte cose sono cambiate e, per la verità, lo stesso quadro normativo rischia di essere nuovamente oggetto di profondi mutamenti.
Non si può fare a meno di notare, in primo luogo, che le affermazioni sopra riportate evocano, ineluttabilmente, il delicato rapporto tra politica e amministrazione di cui il Segretario comunale ha sempre rappresentato il punto di snodo (sia pure con le non marginali criticità derivanti – un tempo e fino alla riforma Bassanini – dalla divaricazione tra la sua, pretesa, anomala collocazione funzionale nei ranghi prefettizi e la sua immedesimazione organica nell’ente locale): e ad un periodo – antico e ormai passato – in cui vi era la ripetizione del modello ministeriale, con l’imputazione degli atti al vertice politico, si è sostituito un modello fondato sulla separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni di gestione amministrativa, che trova il suo fondamento nell’art. 97 Cost. Va premesso al riguardo che, secondo la giurisprudenza, “il criterio discretivo tra attività di indirizzo e di gestione degli organi della p.a. è rinvenibile nella estraneità della prima al piano della concreta realizzazione degli interessi pubblici che vengono in rilievo, esaurendosi nella indicazione degli obiettivi da perseguire e delle modalità di azione ritenute congrue a tal fine”, mentre “gli atti di gestione includono funzioni dirette a dare adempimento ai fini istituzionali posti da un atto di indirizzo o direttamente dal legislatore, oppure includono determinazioni destinate ad applicare, pure con qualche margine di discrezionalità, criteri predeterminati per legge, mentre attengono alla funzione di indirizzo gli atti più squisitamente discrezionali, implicanti scelte di ampio livello” (Consiglio di Stato, sentenza n. 1775 del 27 marzo 2013).
Indagando sul piano della sua traduzione in termini di qualificazione soggettiva, come dianzi sottolineato dall’illustre Maestro, la figura del segretario comunale si pone, in primo luogo, in quel terreno in cui la scelta politica si deve necessariamente fermare di fronte alla norma: ne è espressione la norma secondo cui, in virtù di quanto stabilito dall’art. 97, lett. a) del t.u.e.l., il segretario comunale svolge una funzione di assistenza degli organi collegiali.
In secondo luogo, un ulteriore ambito di intervento della figura del Segretario comunale si pone nel luogo e nel momento in cui l’attuazione della scelta di indirizzo politico deve essere tradotta in una attività gestionale ineccepibile sul piano formale, priva di vizi, rispettosa delle regole poste dalla normativa vigente, ma che dia concretezza alle scelte fatte, in un sistema di programmazione dell’attività dell’ente locale tendenzialmente a cascata. La legge assegna questo compito al segretario comunale solo ove non vi sia nell’ambito dell’ente, la figura del Direttore Generale.
Si tratta di un percorso assai spesso accidentato, in cui una «netta e chiara separazione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e funzioni gestorie» (sentenza n. 161 del 2008 Corte costituzionale) costituisce una condizione «necessaria per garantire il rispetto dei principi di buon andamento e di imparzialità dell’azione amministrativa» (sentenza n. 304 del 2010; nello stesso senso, sentenze n. 390 del 2008, n. 104 e n. 103 del 2007 Corte costituzionale), ma che,come vedremo, non sempre è agevole rinvenire.
Ma, dopo la menzionata riforma introdotta dalla normativa c.d. anticorruzione, il significato profondo della permanenza della figura si rinviene altresì, in terzo luogo, in quel terreno in cui, ancor prima e affiancandosi agli ordinari strumenti testé citati, deve essere garantita una legalità complessiva all’azione amministrativa e contrattuale dell’ente: in cui cioè al principio di imparzialità sancito dall’art. 97 Cost. si accompagna, come «natural[e] corollari[o]», la separazione «tra politica e amministrazione, tra l’azione del “governo” – che, nelle democrazie parlamentari, è normalmente legata agli interessi di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza – e l’azione dell’“amministrazione” – che, nell’attuazione dell’indirizzo politico della maggioranza, è vincolata invece ad agire senza distinzione di parti politiche, al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obbiettivate dall’ordinamento» (sentenza n. 453 del 1990 Corte costituzionale).
Non è tuttavia chi non veda come, in fondo, il problema della figura del segretario, una volta tradotto sul piano della separazione tra indirizzo e gestione, sconta inevitabilmente i limiti di una attuazione insufficiente o lacunosa del principio suddetto.
Va sottolineato al riguardo che, come già detto dalla stessa giurisprudenza, nell’ordinamento non vi è una assoluta separazione tra organi di indirizzo ed organi di gestione, come è attestato dall’esistenza di molteplici fattispecie in cui sono ravvisabili delle forme di “interferenza funzionale” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 7 maggio 2009, n. 2840; TAR Liguria, sez. I, 7 aprile 2006, n. 353; Consiglio di Stato, sez. V, 13 luglio 1992, n. 647, TAR Puglia, Lecce, 18 ottobre 2003, n. 6946), delle quali ad esempio è un indice la stessa possibilità di attivare in casi predeterminati l’esercizio di poteri sostitutivi prevista proprio dall’art. 14, comma 3, d.lgs. n. 165 del 2001, così come la possibilità di ratificare, da parte degli organi di gestione, gli atti viziati da incompetenza relativa di tipo infrasoggettivo, nonostante siano stati adottati da organi di indirizzo.
A ciò si aggiunga il fatto che numerose sono le fattispecie in cui è la legge stessa a individuare competenze gestionali in capo ad organi politici: e se pure la giurisprudenza talvolta si è dimostrata eccessivamente rigorosa sul punto, rimarcando come l’art. 107, comma 1, t.u.e.l. afferma, con forza cogente, il tendenziale principio della distinzione dei poteri di indirizzo e di controllo politico–amministrativo, che spettano agli organi di Governo, dalla gestione amministrativa, finanziaria e tecnica, attribuita direttamente ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo, il chiaro dettato normativo è nondimeno eloquente nell’individuare ed assegnare eccezionali competenze gestionali in capo ad organi politici (assunzione diretta di pubblici servizi, costituzione di istituzioni e di aziende speciali; concessione di pubblici servizi, partecipazione a società di capitali, affidamento di attività o servizi mediante convenzione :art. 42, comma 2, lett. e), t.u.; spese che impegnino i bilanci per gli esercizi successivi: art. 42, comma 2, lett. i), t.u.).
Ancora, a conferma della labilità della distinzione, la giurisprudenza (TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 11 gennaio 2016, n. 3) riconferma ulteriormente, a suffragio del fatto che il principio di separazione tra indirizzo e gestione fatichi a penetrare non solo nel concreto fluire dell’azione amministrativa, ma anche nel comune sentire di amministratori e dirigenti, le difficoltà di pervenire a un criterio accettabile in termini di separazione tra competenze giuntali e dirigenziali: e che assai spesso si traducono, ove si versi nella attribuzione ad organi gestionali di atti a contenuto discrezionale, nella prassi di molti enti alla duplicazione di atti, facendo precedere l’adozione di un atto gestionale da una delibera giuntale di identico contenuto.
Non è chi non veda che l’autonomia del dirigente nell’adozione dell’atto di impegno, sancita in via generale dalla formulazione dell’art. 107 del T.U. ed espressione dell’attuazione di indirizzi, sarebbe seriamente compromessa da una delibera che definisse nel dettaglio i contenuti della successiva attività gestionale e che avesse l’effetto di limitare in concreto la discrezionalità del dirigente: questi, infatti, nella nuova configurazione delle sue funzioni e responsabilità determinata dal d.lgs. 165/2001 e dal d.lgs. 150/2009, non può essere considerato un mero nuncius della volontà degli organi politici. In tal caso la determinazione, anziché essere espressione dell’attuazione dell’indirizzo politico ed essere, in particolare, esercizio di discrezionalità tecnica, diverrebbe mero adempimento meccanico di un ordine impartito; la delibera – finto atto di indirizzo – sarebbe in realtà a tutti gli effetti un precetto assolutamente vincolante e privo per il destinatario (il dirigente) della possibilità di sindacarlo (come invece dovrebbe avvenire per gli atti di indirizzo).
E come ha sottolineato la giurisprudenza in un recente passato, vi è illegittimità di tutte quelle delibere o direttive adottate da una giunta comunale con cui in sostanza (ma non formalmente) si sceglie un determinato contraente, in violazione del principio di separazione delle competenze politiche da quelle di gestione (Consiglio di Stato, n. 1775 del 27 marzo 2013).
La giurisprudenza della Corte dei conti ha del resto sottolineato, in un caso come quello in esame, che “non costituisce esimente dal maturare della responsabilità né ragione di riduzione il fatto che il dirigente abbia seguito direttive impartite dalla giunta, in quanto «aveva la responsabilità precipua delle gare e degli appalti per il suo settore e doveva essere particolarmente avveduto sia nell’individuazione della tipologia di gara da adottare, sia delle ditte che dovevano partecipare», mentre invece la stessa condotta seguita è stata caratterizzata da «superficialità e negligenza non ridotta dall’attività concorrente della giunta comunale, non competente a emanare indirizzi vincolanti nei confronti del dirigente tecnico del settore»” (Corte dei conti, sez. giurisd. Abruzzo, 20 gennaio 2011, n. 23).
In realtà, l’individuazione dell’esatta linea di demarcazione tra gli atti da ricondurre alle funzioni dell’organo politico e quelli di competenza della dirigenza amministrativa, non può che spettare – come rimarcato spesso dalla giurisprudenza – solamente ed unicamente al legislatore. A sua volta, tale potere incontra un limite nello stesso art. 97 Cost.: nell’identificare gli atti di indirizzo politico amministrativo e quelli a carattere gestionale, il legislatore non può compiere scelte che, contrastando in modo irragionevole con il principio di separazione tra politica e amministrazione, ledano l’imparzialità della pubblica amministrazione.
Come è agevole osservare, in questo modo ci si infila tuttavia in un vicolo cieco in cui la difficoltà applicativa delle classificazioni proposte non riesce a dare conto del significato profondo della indefettibilità della figura del segretario comunale. Ed allora non resta che provare a individuare un diverso sentiero, esaminando il dato di diritto positivo, senza avventurarci in aprioristiche classificazioni che non tengono conto dell’evoluzione ordinamentale e della palesata insufficiente distinzione tra attività di indirizzo e sfera gestionale, che rischia di essere apodittica o quantomeno poco proficua.
Non si può fare a meno di riconoscere, infatti – come avevo avuto modo di sottolineare alcuni lustri fa – che l’ordinamento (non solo) degli enti locali, accanto agli organi di indirizzo politico e a quelli di gestione, conosce e disciplina altri organi che potremmo definire di garanzia, in quanto il loro ruolo è svolto nell’interesse dello Stato comunità in posizione di tendenziale terzietà e indipendenza rispetto agli organi politici.
Essi si avvicinano alle autorità indipendenti soprattutto avuto riguardo alla neutralità della propria azione, finalizzata all’obiettivo conseguimento della legalità amministrativa, in uno considerata con la funzionalità e l’efficacia delle strutture pubbliche chiamato a vigilare: l’accostamento fatto da taluno a quelle strutture organizzative «arbitrali», ovvero alle autorità indipendenti, si giustifica con riguardo al momento funzionale in quanto solo in questo obiettivamente assumono compiti di garanzia dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione comunale o provinciale.
È solo così che si spiegano le affermazioni, ad esempio, circa la natura del difensore civico che, si dice, è autorità indipendente e che è figura soggettiva pubblica “ultra” dal comune da cui trae origine, e conseguentemente ne è distinto sotto i profili dell’attività, delle procedure, delle strutture, dei mezzi, ma che trova esplicazione anche, ad ulteriore esempio, per l’organo di revisione, che pure ha una propria autonomia di azione e di mezzi, pur in stretto collegamento con l’organo consiliare e anzi ausiliandolo a tutela di tutte le sue componenti; e che (seppur con qualche legittimo dubbio derivante dalle normative di riforma che sembrano talora e occasionalmente aver minato tale costruzione) per il segretario comunale si rinviene in alcune funzioni (di rogito, di assistenza giuridica, di verbalizzazione) che gli sono proprie ed esclusive a tutela dello Stato comunità.
Diviene allora probabilmente più logico pensare che le molteplici attività intestate al segretario comunale, siano riconducibili per lo più a un ruolo di garanzia, specialmente ora che la prevenzione della corruzione (ma non solo) assume un ruolo preminente, a difesa di interessi del tutto avulsi dalla logica particolare della concreta attuazione di indirizzi politici. Del resto, non si può certo pensare che il segretario comunale svolga il suo ruolo di verbalizzante, o di consulente in ambito collegiale, o di ufficiale rogante attenendosi a direttive impartite dall’organo politico!
Nello specifico, come noto, le funzioni che il segretario, nominato dal sindaco da cui dipende funzionalmente, pur restando in posizione di rapporto di servizio con l’apposita Agenzia, svolge, sono scolpite dall’art. 97 del t.u.e.l. e si sostanziano in compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell’ente in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti. Egli qualora non sia stato nominato il direttore generale sovrintende altresì allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e ne coordina l’attività.