L’importanza di superare logiche segreganti
Carlo Francescutti
È un fatto molto positivo che la rivista Welfare Oggi abbia recentemente pubblicato un articolo di Giovanni Merlo (Giovanni Merlo, Segregazione che brutta parola, in Welfare Oggi, 2/2018, pp. 64-67) sul progetto della Federazione Italiana Superamento Handicap (Fish) contro la segregazione delle persone con disabilità e in particolare delle persone con disabilità intellettiva, autismo e problematiche psichiatriche. Non a caso il sottotitolo del testo che raccoglie parte del lavoro FISH (Merlo, Tarantino, 2018) richiama l’attenzione su una realtà di cui troppo poco si parla ovvero i “manicomi nascosti in Italia”. La necessità di parlare di questo tema, anche usando termini che possono urtare la sensibilità di molti, deriva infatti dalla constatazione che il rischio che molte strutture per persone con disabilità intellettive e problematiche psichiatriche ripropongano in altra forma rispetto al passato l’istituzione manicomiale, è tutt’altro che remoto o limitato.
Persone con disabilità intellettiva e autismo : perché ha senso parlare di rischio segregazione
Per il vocabolario italiano il termine segregazione ha un significato relativamente chiaro: “esclusione dai rapporti o dai contatti con altri, isolamento”. Nel caso delle persone con disabilità intellettiva e autismo con il termine segregazione indichiamo il rischio di una vita vissuta fuori dal sistema di relazioni che costituisce la trama della vita quotidiana della maggioranza delle persone. Questo rischio è duplice: vivere fuori perché inclusi in istituzioni totali; fuori perché invisibili, presenti, ma non coinvolti, non realmente considerati parte di una relazione reciprocante.
Ambedue i significati del termine sono importanti ed è importante parlare di rischio “segregazione” per la popolazione con disabilità intellettiva ed autismo. I dati della letteratura internazionale dipingono infatti una condizione di vita per certi versi drammatica, poco conosciuta dall’opinione pubblica e altrettanto poco compresa. Sicuramente la marginalità sociale (Emerson et al. 2007; Emerson et al. 2013) della maggior parte di queste persone contribuisce a non far cogliere nella società civile e nel dibattito politico l’importanza del tema. Si crea un potenziale circolo vizioso: gruppi sociali marginali, separati, invisibili sono disconosciuti e questo disconoscimento rafforza la marginalità, la separatezza e l’invisibilità.
Abbiamo pochi dati che descrivono la situazione a livello di popolazione, soprattutto nel nostro paese. Ne ricordiamo alcuni, ripresi da studi internazionali, come ad esempio l’irrilevante presenza di persone con disabilità intellettiva e autismo nel mercato del lavoro: le stime europee indicano un tasso di occupazione oscillante tra il 6 e l’8% (Hatton et al. 2015); il rischio di subire violenza di ogni tipo, dalla trascuratezza alla violenza sessuale con stime del rischio dalle 2 alle 3 volte superiori rispetto al quelle della popolazione generale (Hughes et al. 2012; Jones et al. 2012); il vivere in proporzione consistente in grandi istituzioni per disabili dove per grandi istituzioni prendiamo come riferimento le strutture con più di 30 persone (Šiška et al. 2018).