Trasparenza formale e il suo “oltremondo”: verso una trasparenza sostanziale?
Tiziano Tessaro
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(Parte degli articoli menzionati nel presente editoriale saranno pubblicati sul fascicolo 12/2019)
In altri numeri di questa Rivista avevamo avuto modo di sottolineare che il periodo che stiamo vivendo è caratterizzato da una continua, insistente richiesta di “trasparenza” in tutte le occasioni e in tutti i settori – come quello dell’accesso civico generalizzato – e più numerosi obblighi di pubblicazione.
Il legislatore in questi ultimi anni ha proceduto in particolare in una duplice direzione: con l’ampliamento degli obblighi di trasparenza, e la riscrittura delle relative regole, ma anche con l’introduzione dell’accesso civico generalizzato di cui al nuovo art. 5, comma 2 del decreto n. 33. Queste due dimensioni della trasparenza, la pubblicazione e l’accesso, non hanno altro scopo, nelle intenzioni del Legislatore, che quello della più ampia affermazione del principio della full disclosure, in cui l’amministrazione trasparente – e il pensiero va immediatamente alla c.d. “casa di vetro” – rappresenta un autentico obiettivo da perseguire nell’ottica della prevenzione della corruzione. Ma i nuovi istituti hanno riportato a galla criticità per la verità mai venute meno, nel delicato bilanciamento tra privacy e trasparenza, acuite forse dalla nuova misura delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal regolamento europeo e dal novellato codice privacy. Il pregevole contributo di Margherita Bertin che ospitiamo (e che sintetizza le conclusioni dell’Autrice in occasione del Convegno tenuto a Bologna il 24 settembre scorso) dà evidenza del permanere delle difficoltà nel trattamento dei dati, soprattutto per la pubblicazione, testimoniata dai numerosi provvedimenti che il Garante si vede costretto a continuare ad adottare (sebbene, a ben vedere, nella tripartizione tra dati sensibili, supersensibili e parasensibili, sia in effetti cambiato poco).
Non a caso quindi pubblichiamo l’interessante lavoro di Stefano Orlandi e Micaela Grandi (sintesi di due interventi pubblici degli autori, in altrettanti convegni “bolognesi”), i quali intendono ripercorrere alcuni tratti della vicenda giudiziaria in materia di protezione dei dati e trasparenza che ha condotto alla pronuncia della Corte costituzionale n. 20/2019 con la quale la Consulta ha riconosciuto – in riferimento alla stragrande generalità dei dirigenti pubblici – l’illegittimità costituzionale della pubblicazione (sul web) delle dichiarazioni e delle attestazioni di cui alla lettera f) dell’art. 14 d.lgs. n. 33/2013, come novellate dal c.d. FOIA italiano (d.lgs. 97/2016), ossia delle “dichiarazioni e delle attestazioni relative alla dichiarazione dei redditi e alla dichiarazione dello stato patrimoniale, quest’ultima concernente il possesso di beni immobili o mobili registrati, azioni, obbligazioni o quote societarie –, limitatamente al soggetto interessato, al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado”.
Senza alcuna pretesa di completezza né di esaustività, gli autori si soffermano sull’origine della vicenda (il casus belli, ossia il ricorso di sei dirigenti del Garante per la protezione dei dati personali contro le richieste di consegna dei loro dati, ai fini della predetta pubblicazione, ricevute dal Garante stesso); quindi tratteggiano le luci, da un lato, e le non poche ombre, dall’altro, della decisione della Corte costituzionale (che non ha saputo, o voluto, varcare la soglia di quello che un noto scrittore italiano chiama “l’oltremondo”) e infine auspicano un ulteriore sviluppo della causa verso una “seconda parola” a loro giudizio indispensabile ai fini di un corretto e completo bilanciamento tra trasparenza e data protection.
Proprio in una materia caldissima e incandescente, peraltro, quale quella degli appalti, contemplata espressamente dal legislatore come oggetto di una sua pianificazione in termini di prevenzione della corruzione (e quindi di trasparenza), è quindi opportuno segnalare la recente posizione espressa dal Consiglio di Stato, con la sentenza n. 5503/2019: la quale si pone in perfetta antitesi con la pronuncia della III sezione dello stesso giudice che, ossequiando anche un indirizzo forse maggioritario dei giudici di primo grado, aveva ammesso l’applicabilità dell’accesso civico generalizzato alla “materia” degli appalti.
L’articolo di Stefano Usai si pone in “continuità” rispetto al contributo pubblicato sulla rivista (n. 6/2019) e cerca di dar conto dell’approdo più recente (operato dalla citata sentenza n. 5503/2019) che sconfessa detta posizione esprimendo delle riflessioni probabilmente maggiormente persuasive: sottolineando probabilmente l’aspetto giuridico principale, ovvero che l’accesso agli atti degli appalti trova una specifica disciplina (nel rinvio dall’art. 53 al sistema generale delineato nella l. 241/1990) e si caratterizza pertanto per essere uno dei “casi” che incontra precisi limiti e vincoli già delinati dal legislatore. In questo senso, gli atti del procedimento di gara (tanto quelli pubblicistici quanto quelli civilistici relativi all’esecuzione del contratto non rientrano nel fuoco applicativo del FOIA). Solo un intervento esplicito del legislatore, conclude la sentenza, potrebbe disporre l’assoggettabilità degli atti dell’appalto alla nuova fattispecie di accesso.
Sullo stesso piano, ma valorizzando maggiormente argomenti di segno contrario, si pone la notevole ricostruzione di Franco Botteon della tematica in questione che rimarca come in questo ambito sia più pressante lo “scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico” che è, testualmente, la finalità assegnata all’accesso civico generalizzato del comma 2, art. 5 del d.lgs. 33/2013.
Un altro profilo di interesse della nuova disciplina dell’accesso civico è quello afferente la latitudine dei comportamenti ammissibili da parte dell’amministrazione destinataria della richiesta: e in proposito ci si è chiesti (con un altro articolo di Margherita Bertin e Tiziano Tessaro) se quello che nella vigenza della sola l. 241/1990 era un principio acquisito (ovvero che oggetto dell’accesso dovesse essere un documento già esistente e non l’estrapolazione di dati con contestuale creazione di un nuovo documento), sia o meno un principio superato: come è noto, infatti, per ciò che concerne l’accesso documentale ex lege 241/1990, non era ritenuta accoglibile una istanza di accesso agli atti amministrativi che comportasse un’attività valutativa ed elaborativa dei dati in possesso dell’amministrazione (così, ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 17 gennaio 2002, n. 231; Id., sez. V, 31 gennaio 2007, n. 408; Id., sez. IV, 9 agosto 2005, n. 4216; TAR Lazio, Latina, sez. I, 24 maggio 2013, n. 499). Ora invece sulla base della recentissima giurisprudenza del Garante della privacy ,le cose paiono essere diverse (e ciò in disparte le indicazioni non univoche fornite da ANAC nella Linee guida di cui alla delibera n. 1309/2016). E purtuttavia, nella non coincidenza di posizioni interpretative sostenute da ANAC e Garante, la problematica oggetto dell’articolo in rassegna, sottende ulteriori e ben più delicate problematiche di cui si dà conto, tali da richiedere un necessario approfondimento e riflessione sui fondamenti stessi dell’istituto dell’accesso civico. Come è stato tuttavia sottolineato, “paradossalmente, le potenzialità della attuazione della trasparenza, in senso sostanziale sono rimaste “anchilosate” più che altro nel recinto dell’accesso alla documentazione amministrativa. Quasi che la casa debba essere di vetro solo per quel che riguarda l’attività formale dell’autorità amministrativa mentre ciò non sarebbe né importante, né concepibile quando l’attenzione del cittadino e del portatore di interessi si estende oltre il formale rispetto delle regole del procedimento amministrativo. Viene sostanzialmente trascurata l’esigenza di curare i profili divulgativi delle problematiche finanziarie, delle relazioni finanziarie con l’Unione europea, di quelle tra Stato e autonomie territoriali, del finanziamento delle prestazioni sociali, delle modalità con cui ISTAT ed Eurostat rilevano i valori economico-finanziari riconducibili al prodotto interno lordo.
Eppure (…) il concetto di trasparenza viene più volte evocato dal legislatore europeo anche con riguardo alla disciplina del bilancio e dei conti pubblici.
Ed ecco che in fondo l’articolo di Rossana Mininno, che si occupa del trasferimento delle risorse dall’ente locale alla società partecipata in caso di liquidazione, dimostra come questa esigenza (definita in precedenza sostanziale) di trasparenza richiederebbe – come poc’anzi rimarcato – ben altri strumenti (e non semplici documenti da inserire nel sito web) per rendere nota alla collettività l’entità dello sforzo finanziario complessivo che viene in definitiva assunto per i servizi oggetto della società: l’autrice conclude ricordando che secondo l’unanime elaborazione giurisprudenziale il c.d. divieto di soccorso finanziario è applicabile anche all’ipotesi in cui la società partecipata dall’ente locale versi in stato di liquidazione.
Per altro verso, non è chi non veda, sempre per rimanere al tema del numero, come la vendita di un bene pubblico, appartenente ad un ente locale, di cui si occupa l’approfondimento svolto da Maurizio Lucca, esige un’attività procedimentale specifica che prescrive una procedura trasparente – anche questa in senso sostanziale – oltre beninteso all’idoneità del bene oggetto di alienazione, il quale non deve essere incluso nei beni del patrimonio indisponibile.
La prima attività dovrà, pertanto, consistere nella verifica della classificazione del bene, come alienabile e non più demaniale, seguita dall’inserimento ad opera del Consiglio comunale nel Piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari. L’articolo in rassegna sottolinea come, appurata la sua destinazione non più a soddisfare un interesse pubblico prevalente il bene può essere venduto con procedura aperta, proprio in ragion della non più strumentalità all’esercizio delle proprie funzioni istituzionali, legittimando la sua dismissione: con l’inserimento del bene immobili nel Piano delle alienazioni e valorizzazioni, quale documento allegato al bilancio di previsione, si determina la classificazione del bene tra il patrimonio disponibile e si può procedere alla vendita mediante un avviso pubblico, secondo le regole che ogni amministrazione locale si è posta per le alienazioni, non potendo procedere ad un’assegnazione diretta.
Ma trasparenza in senso sostanziale sta a significare anche necessaria rendicontazione sociale delle spese che vengono ad essere sostenute dagli amministratori (Corte costituzionale n. 6/2019), anche ove ciò avvenga con procedure irrituali di assunzione delle stesse: e il fatto che venga a essere ricondotto all’organo consiliare – ovverosia l’organo deputato ad approvare l’atto di allocazione delle entrate e delle uscite in funzione dei programmi approvati – la procedura di riconoscimento di debito fuori bilancio appare volta, oltre che all’emersione delle relative responsabilità, anche alla individuazione dei profili che possono andare a vulnerare gli equilibri di bilancio e il corretto uso delle risorse pubbliche. Ed è questo il punto di contatto a mio avviso tra una concezione formale di trasparenza (che comunque fa capo – art. 1, d.lgs. 33/2013 – al profilo testé indicato) e la evocata concezione sostanziale di trasparenza: così che, anche in questo caso, è agevole rinvenire il valore strumentale di essa agli altri valori contemplati dalla Carta costituzionale, dal momento che la trasparenza concorre “ad attuare il principio democratico e i principi costituzionali di eguaglianza, di imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell’utilizzo di risorse pubbliche, integrità e lealtà nel servizio alla nazione”: una trasparenza che viene quindi improntata al rispetto di adempimenti di pubblicità dei dati sul sito web dell’ente, dichiaratamente funzionali (art. 1, comma 15, della l. 190/2012) al corretto uso delle risorse pubbliche (e quindi indirettamente all’equilibrio e sostenibilità del bilancio), facendo emergere, anche in questo caso, la connessione tra buon andamento, bilancio e imparzialità della pubblica amministrazione. Plasticamente la disposizione in esame precisa che la trasparenza amministrativa “è condizione di garanzia delle libertà individuali e collettive, nonché dei diritti civili, politici e sociali”, e la configura come integrante “il diritto ad una buona amministrazione”. La centralità della public review, operando altresì una sistematizzazione dei principali obblighi di pubblicazione vigenti, fa sì che il destinatario di tali notizie diviene il cittadino con la presenza di un costante collegamento tra istanza e fase procedimentale, accessibile via web.
Conclude il numero il contributo di Marzia Alban che propone un utile formulario contenente disposizioni organizzative per l’attuazione degli obblighi di trasparenza, ex art. 14, d.lgs. 33/2013, in adeguamento alla sentenza della Corte costituzionale n. 20/2019 e deliberazione ANAC n. 586/2019.