Culturalità del paesaggio e paesaggi culturali
Giuseppe Severini
A Varenna, al cuore del lago di Como, il tema di questa relazione riporta a un celebre passo letterario:
“Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio ...”.
Così inizia il capitolo VIII de I promessi sposi: uno dei più conosciuti esempi di poesia in prosa, da generazioni di italiani imparato a memoria. Nel monologo intimo di Lucia costretta alla fuga, questi luoghi cari ad Alessandro Manzoni sono tratteggiati nella loro suggestiva bellezza per dire della lacerazione dell’animo di chi li ha per parte di sé ma se ne deve separare. Una delle più esplicite soggettivazioni letterarie del paesaggio, il cui valore si specchia nell’intensità della partecipazione interiore.
Ma non solo Manzoni va qui ricordato. Un’altra figura è presente al nostro tema, lecchese e di Manzoni giovane amico: l’abate Antonio Stoppani (1824-1891), geologo e paleonotologo, autore di uno dei più diffusi e popolari libri educativi degli ultimi decenni del secolo XIX, un vero best seller: “Il Bel Paese, conversazione sulle bellezze naturali, la geologia, la geografia fisica d’Italia”, dove l’autore, immedesimato in uno zio che il giovedì riunisce una compagnia attorno a un caminetto milanese, con linguaggio accessibile al grande pubblico parla di geologia e di bellezze naturalistiche invitando a coltivare il sentimento nazionale e l’alpinismo. Pubblicato per la prima volta nel 1876, divulgò a centinaia di migliaia di italiani le bellezze di una trentina di luoghi. Costituì un nuovo, economico strumento descrittivo che “democratizzò” e uniformò la conoscenza del paesaggio nazionale insieme alle celebri guide ottocentesche degli editori tedeschi Baedeker, dal 1914 riprese dalle guide rosse del Touring club italiano (in origine, 1894, Touring Club Ciclistico Italiano, lo ricorda la ruota di bicicletta ancora nel suo simbolo).
Grazie alle realizzazioni industriali dell’evoluzione tecnologica, o direttamente in bicicletta o con la combinazione di treno e bicicletta si passava allora da una conoscenza effettiva dei territori ristretta ed elitaria, come quella dei costosissimi Grand Tour sette e ottocenteschi (dove ognuno dei facoltosi viaggiatori, dal Presidente de Brosses a Goethe, veniva in carrozza in Italia a visitare quanto aveva appreso attraverso i libri della sua biblioteca, che spesso portava con sé: e lo riconosceva secondo la sua personale disposizione) a un’acquisizione diffusa, nazionale e omogenea. Con spesa contenuta, un mondo per lo più borghese poteva ora visitare i luoghi lontani descritti dall’abate Stoppani o dai Baedeker: accedendovi, vi ritrovava elementi costitutivi della forma della realizzata Patria e dunque teatro e al tempo stesso patrimonio della coscienza nazionale. Ne traeva conferme ideali. Ma vi trovava anche contrasti da inaspettate offese, frutto avvelenato delle incipienti trasformazioni economiche e territoriali: e lo protestava.