Il valore delle parole
Emiliano Bezzon
L’autorevolezza di una persona si costruisce e mantiene attraverso il suo agire, il suo stile, le sue capacità e doti morali.
Quando, invece, occorre desumere tale fondamentale virtù per un leader attraverso la lettura o l’ascolto di un testo o di un discorso, senza nemmeno poter attingere alcunché da sguardi o gestualità, ci si gioca tutto sulle parole, sulla capacità di usarle con appropriatezza, senso e soprattutto ampia comprensibilità. È sicuramente più autorevole chi si fa comprendere da tutti, rispetto a chi ami apparire criptico, anche se molti sono convinti del contrario. Politici, giornalisti, uomini di cultura e di potere a volte cedono alla tentazione del preziosismo linguistico, della metafora raffinata, della citazione dotta, non sempre cogliendo nel segno; anzi, a volte, rimediando delle figuracce, delle critiche feroci o, cosa terribile per un leader o luminare, l’indifferenza dei più.
A volte accade anche di peggio e, cioè, che l’uso sbagliato o approssimativo delle parole, possa creare guai, o tensioni: da un fraintendimento verbale possono nascere risse o guerre.
Se chi scrive o parla è uomo di governo, l’uso cosciente e corretto delle parole è tutto. Per venire al concreto: dire che da un certo momento, dopo settimane di clausura, si potrà muoversi nella regione per vedere i propri congiunti è un grave errore. Il popolo è abituato a parlare di parenti (zii, cugini), familiari (fratelli, sorelle, figli, genitori) conviventi, conoscenti; i giuristi usano termini come affini, ascendenti, discendenti… ma congiunti non significa nulla, anzi crea confusione. Dalla confusione, nasce incertezza, da cui deriva tensione… e la credibilità è persa. Se poi occorre che qualcun altro scriva una circolare per spiegarne il senso, usando decine di parole per spiegarne una… È paradossale ma quantomai concreto verificare quanto l’uso di una parola sbagliata (assieme a tante altre per il vero in tempi recenti) possa trasformare l’anelito di una maggiore libertà in rabbia e sconforto. Oggi siamo circondati da esperti di comunicazione, che decidono format, orari, immagini, tagli discorsivi.
Siamo cioè concentrati sulla cura del contenitore, molte meno – ahimè – sui contenuti.
Da qui derivano le scivolate linguistiche, che i benevoli chiamano gaffes, i realisti chiamano disastri. Nella difficolta della pandemia molti vorrebbero trovare conforto in parole chiare; invece ogni giorno sentiamo discorsi infarciti, di acronimi, inglesismi e parole usate a sproposito. Ogni norma ha bisogno di una o più circolari esplicative e delle famose FAQ (acronimo e inglesismo assieme), che forse molti non sanno nemmeno cosa siano.
Tutto ciò non è stato previsto nemmeno nei migliori romanzi di fantascienza, che pure spesso, dopo decenni, dimostrano una buona dose di preveggenza.
Ma nel buio incipiente si intravedono fortunatamente delle luci, dei fari. Il prefetto Gabrielli, attuale capo della Polizia, ma già Capo della Protezione Civile, nonché Capo dei Servizi Segreti interni e via dicendo è una luce chiara. È una persona certamente autorevole per quello che ha fatto e fa quotidianamente e lo dimostra ogni volta che scrive o dice qualcosa. Nei giorni immediatamente precedenti il passaggio alla famosa “fase 2” dell’emergenza sanitaria ha scritto che l’attività delle forze di polizia deve essere improntata a: “coerenza, prudenza, gradualità”. Tre parole semplici, chiare, appartenenti al linguaggio comune, eppure dense di portata semantica, autorevoli appunto.
In tre parole il Capo della Polizia di Stato italiana ha descritto la situazione di tensione, malessere, disagio e disorientamento della popolazione, provata sul piano psicologico e spesso anche materiale. In tre parole il Capo della Polizia di Stato ha espresso la sintesi efficace del comportamento ideale di chi è chiamato a garantire l’ordine pubblico e la civile convivenza. Questo è un uomo dello Stato, un uomo con il senso dello Stato, una figura autorevole. Non è quindi la quantità della comunicazione, la sua forma a colpire nel segno, ma la chiara ricchezza dei contenuti. Al sentire comune si arriva parlando la lingua comune, non elevandosi attraverso un linguaggio distante.
Questi due paradigmi, i “congiunti” dal un lato e la “coerenza, prudenza e gradualità” dall’altro, sono modelli solo apparentemente antitetici. Il secondo è spesso chiamato a supplire alle carenze del primo, come anche nell’esempio citato, in cui un altissimo funzionario dello Stato, cerca di dare la migliore attuazione alle disposizioni dello Stato stesso, nonostante la loro scarsa qualità formale e sostanziale. Quanto detto vale sempre, tutti giorni e a tutti i livelli.
Vale quando alle istanze di cittadini si risponde in burocratese e con continui, incomprensibili rimandi a norme di legge o regolamentari.
Vale quando nell’interlocuzione scritta o verbale si fa ricorso a modi impersonali (si rammenta che, si rende noto che, si diffida a…) piuttosto che a modi diretti e personali (ricordo che, rendo noto, diffido…); oppure a termini desueti oltre che brutti (il succitato, il suesposto, il sottoscritto, il prefato!). L’autorevolezza sta molto nella capacità di farsi capire e magari anche apprezzare per la chiarezza. Finisco con un consiglio per gli acquisti che, ovviamente è un libro: il dizionario dei sinonimi e dei contrari, in qualsiasi edizione. Così, ogni volta che siamo tentati di usare una delle parole che appartengono solo al mondo della burocrazia, intesa nel senso più negativo del termine, potremo ricercarne altra con lo stesso significato e più accattivante e ricorrente.
Per i problemi più seri, invece, il rimedio è il caro buon vecchio dizionario della lingua italiana, in modo da poter sempre andare a vedere il significato delle parole che si dicono o scrivono, a scanso di equivoci.